giovedì 11 dicembre 2014

NOI SIAMO BISOGNOSI DI BELLEZZA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose

Noi tutti siamo bisognosi di bellezza. Qualche volta in modo disperato, quando la sofferenza per anni ci sfigura, come capita a quanti di noi sono afflitti dal grande male mentale. La paura fa rifiutare il rischio del vivere, la passiva inerzia minimizza (almeno dovrebbe) la sofferenza: con queste due compagne, la vita diventa un'infinita minaccia dominata dalla categoria del brutto. È brutto sentire di non valere nulla, è brutto sentire di essere incapaci di tutto, è brutto fallire continuamente, è brutto rifugiarsi nel delirio, nel bere.

Ma riflettiamo un momento.

Il “malato”, come ognuno di noi, è un progetto. Ma è un progetto scomposto, irriconoscibile, disperso nel caos; tuttavia è al mondo, è spinto ciecamente dalla necessità di esserci. Si trova sulle spalle questo compito del vivere, che gli è piombato addosso senza chiedere il suo parere, e non sa come fare: è una presenza incastrata fra la necessità di essere al mondo – devo vivere, sono stato buttato nel mondo, la biologia del mio corpo lo reclama – e l’incapacità di farlo – ma non so come si fa, non mi ci raccapezzo ...

Il “malato”, come ognuno di noi, non solo è al mondo: è lui stesso un mondo, per sconquassato che sia, e come tale potrebbe sempre dirci qualcosa su questa avventura del vivere, che ci riguarda assai da vicino e di cui da sempre ci manca il libretto di istruzioni. È una Persona, è eccedenza di significato, è fonte inesauribile di valore che con la sola presenza può impreziosire il mondo, appena questi lo guardi con la lucida intelligenza dell’amore. Ogni lavoro la richiede, ma questo, il prendersi cura di coloro che vivono ai confini del vivere, la richiede, la pretende, la esige ancora di più.

Osservate per un momento, cara lettrice e caro lettore, come nei pressi della grande sofferenza mentale vadano a intrecciarsi amore, eccedenza di significato e necessità della presenza: questo intreccio ci avvicina all’esperienza della bellezza.

La bellezza: lasciamo per un istante il “malato”. Dove la troviamo, la bellezza?

Quando ne facciamo esperienza? Pensiamo alla generosità della grande arte, alla letteratura, alla musica, alla pittura ... Anche se non vi badiamo più di tanto nelle nostre giornate, essa, la grande arte, è così importante per la nostra vita che faticheremmo a pensarci senza. È entrata nel nostro linguaggio quotidiano senza che ce ne accorgessimo, l'ha costituito come il terreno che ci sostiene: non lo sappiamo, o lo dimentichiamo, ma ogni nostra esperienza passa attraverso il suo filtro. È sufficiente pensare a Dante? Per questo non ci è difficile comprenderne la necessità, della bellezza: non ci è necessaria la bellezza di quella Pietà che un Michelangelo – a ventitré anni, ven-ti-tré! – seppe pensare e scolpire?
Tante grandi opere, al pari di questa Pietà, continuano a distanza di secoli a parlarci, a significare per noi, continuano a dirci chi siamo e come siamo fatti, solo che ce ne ricordiamo. Ecco la loro eccedenza di significato.

Infine esse ci fanno stare bene, ci capiscono, ci amano. L'andante cantabile della Sinfonia k 551 non ci conferma, non ci fa sentire amati e accettati nel profondo? Non legge nella nostra profondità come solo l’amore profondo può fare? Quasi che il suo risuonare magnificasse dentro di noi ricchezze a noi stessi ignote, ci mostrasse cosa si può fare della sostanza umana, della nostra sostanza umana. Ah, ma se essere umani significa anche essere così come dice l'andante... accidenti, mica male ... ma allora ne vale la pena .. che bello ...

La bellezza: nelle nostre giornate fa capolino nel linguaggio senza che ce ne accorgiamo, quando esclamiamo “che bello!”, “che bella persona”, “che bellezza!” . Senza pensarci tanto salutiamo qualcuno e gli diciamo “ciao bella!”, “ciao bello!”. Forse questo significa: ho proprio piacere di vederti, la tua presenza tutte le volte significa qualcosa di più, è proprio importante che tu ci sia, è necessario, forse provo qualcosa di simile all’amore.
Se diciamo bella a una cara Persona, e lo diciamo a Mozart e a Michelangelo, una ragione ci sarà? Forse si tratta di esperienze per qualche verso affini?

Torniamo ai “malati”: dobbiamo imparare a vederli belli, i “malati” (e magari anche i “sani”). A immaginarne la bellezza nascosta dietro la sofferenza, quella bellezza che loro hanno dimenticato o non hanno mai visto. Dobbiamo saperli guardare con lo sguardo del mentore, o della madre amorosa, di coloro che sanno ravvisare le promesse nel seme.

Perché la loro immagine bella, quella che nascerà dalle nozze della loro realtà con la nostra anima, quella, quella essi vedranno nei nostri occhi, e sarà il loro farmaco, la loro guida al vivere.

Ma possiamo vederli belli solo se la bellezza soggiorna dentro di noi, se già il nostro sguardo ne è abituato. Noi siamo fortunati: siamo in Italia! Quell’Italia che custodisce una percentuale esorbitante delle opere d’arte di tutto il mondo! Quell’Italia che è stata nei secoli, ed è tuttora, considerata il paradiso della bellezza, dell’arte, del saper vivere e, non ultimo, del saper mangiare! L’Italia del Rinascimento fiorentino, del Poliziano, di quell'incredibile momento fra la fine del 1400 e l’inizio del 1500 che ha visto incrociarsi Leonardo e il giovane Michelangelo … l'Italia che nell'Ottocento ha regalato al mondo Giuseppe Verdi e nel Novecento Goffredo Petrassi e il Quartetto Italiano ...

La storia dell’arte è il catalogo dei fenomeni dell’anima. Proviamo a pensare che i classici al di là dello spazio e del tempo davvero parlino di noi, davvero parlino a noi, lasciamo da parte il ricordo annoiato di inutili anni di scuola. L’esperienza della bellezza sta proprio in questo, nel vedere rappresentata la nostra realtà umana illuminata dalla grazia, dalla profondità dello sguardo, dalla tenerezza. La bellezza ci capisce profondamente, ci legittima, perché è la più libera dimora dell’anima...




Giorgio Moschetti

venerdì 7 novembre 2014

SUL POTERE NEL PRENDERSI CURA (DEGLI ALTRI E DI SE')

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose



Cara lettrice, caro lettore, oggi vorrei riflettere con voi sul potere, in particolare sul potere di chi assiste, cura, si prodiga, dà, sul potere del guaritore, del terapeuta, al quale in genere si attribuisce valore simbolico di sacrificio, altruismo, sensibilità.
A ben pensare la maggior parte delle professioni è o dovrebbe essere in qualche modo al servizio della salute e del benessere dell’uomo: tuttavia le attività connesse al prendersi cura, quelle terapeutiche per intenderci, dello psicoterapeuta come del sacerdote, dell’insegnante come del medico, dell’assistente sociale, dell’educatore richiedono atteggiamenti e impegno particolari, diretti inequivocabilmente ad aiutare gli infelici, gli ammalati e tutti coloro che in qualche modo abbiano smarrito il loro cammino. In queste figure entra in gioco, in maggiore o minor misura, l’immagine del guaritore, di colui che si prende cura.
C. G. Jung chiama archetipi queste immagini interne, originali, primordiali, sorta di modelli interiori di comportamento; e chiunque abbracci nella propria vita il compito tutt’altro che leggero dell'assistere, del guarire, dovrà aver a che fare con l'archetipo del guaritore. Esso si fonda su due poli, su due possibilità intrinseche dell'essere umano, della Persona. Ogni Persona può essere malata, stressata, disorientata, incapace di far fronte alla propria vita; viceversa ogni Persona può anche lenire con la carezza, guarire.
Chi assume un ruolo terapeutico non può considerarsi veramente guaritore se non conosce la malattia, la sofferenza, se non le riconosce nel suo intimo: deve avere – chi non ce l'ha? – e soprattutto riconoscere la propria ferita dentro di sé. Il suo interesse per il prendersi cura nasce proprio dalla consapevolezza che ogni vita, umana e non, è esposta a sofferenza, a malattia, a smarrimento. Per curare e assistere l'altro il guaritore deve conoscerla, la sofferenza: come può farlo, se non conoscendo la propria? Egli al pari del malato è esposto a sofferenza, a malattia, a smarrimento. Ma sa dialogare con essi, almeno si spera, sa riconoscerne la natura di importanti occasioni perché la Persona venga alla luce nella sua pienezza, sa trovarne un senso in relazione al suo cammino di vita. Questo può offrire al sofferente, e non è poco.
Ma il potere, dov’è in tutto ciò? Certo il guaritore, proprio per quello che hai appena letto, ha molto potere nei confronti del sofferente, potere ingigantito dal bisogno e dalla sofferenza stessa dell'altro. 
E in questo grande potere si annida per il terapeuta il grande rischio di sentirsi superiore al paziente, di squalificarne ogni dubbio o parola perché parola del malato, quindi sintomo, quindi segno di malattia, o comunque parola di incompetente, di non addetto ai lavori. È questa l’ombra del terapeuta: è importante – di più, indispensabile – che il terapeuta conservi memoria della propria ferita e sappia sempre che curando gli altri sta anche curando la propria malattia, il proprio malessere personale, esistenziale. Più il terapeuta crede di essere sano, immune dalla fragilità, più vedrà il "guasto" soltanto in chi gli sta di fronte e più crescerà la distanza tra i poli dell’archetipo ferito - guaritore, distanza che invece deve attenuarsi. Il rischio per lui sarà di istallarsi sull'unico polo del guaritore, con il quale finirà per identificarsi, sbarazzandosi così della propria umana realtà, della propria debolezza, che saranno invece proiettate su chi gli sta vicino, sui pazienti, sui colleghi, sui familiari, gli amici. Sappiamo che la parte repressa dell’archetipo è sempre proiettata inconsciamente sul mondo esterno; il paziente invece tenderà a proiettare sul terapeuta il proprio guaritore interno, la sua parte non riconosciuta che lo salverebbe, la attribuirà tutta a lui anziché svilupparla riconoscendola come indispensabile aspetto salvifico di sé. Ogni terapeuta corre il rischio di identificarsi con i propri strumenti dimenticando la propria fragilità, tanto più quanto più si affanna ad accumular strumenti e tecniche trascurando il rapporto con la propria sofferenza. In realtà, identificandosi con la salute, il potere, la forza, egli corre il rischio di diventare ancora più inconscio del suo paziente. Il linguaggio del potere infatti gli insegna tutti i trucchi per difendersi, negare e rimuovere la sua ombra segreta (la sua fragilità, i suoi disturbi, le sue incertezze). E questa rimozione gli renderà impossibile avere un rapporto vero con la propria psiche profonda, nonché autentici rapporti umani.
Jung considera questa inflazione psicologica quasi un passaggio obbligato, una seduzione inevitabile con cui ogni terapeuta deve fare i conti sulla strada dell’integrazione dei contenuti dell’inconscio. Nel suo saggio intitolato "L’Io e l’inconscio" scrive: "non ho ancora assistito a uno sviluppo più o meno progredito di un processo analitico di questo genere, dove non avvenisse almeno temporaneamente un’identificazione con l’archetipo della personalità mana", in cui cioè il guaritore nella forma di eroe, mago, medico, santo o capo tribù, non perdesse almeno temporaneamente il contatto con la propria fragilità.
L’archetipo ferito-guaritore abita il mondo interno di ognuno di noi, anche di te che stai leggendo in questo momento: se presti un po’ d’attenzione a come a volte ti poni nei confronti degli altri, se con un piccolo sforzo ti dici proprio le cose come stanno, se sei sincero e onesto con te stesso, noterai che questo rischio è anche affar tuo, come lo è per chiunque debba gestire del potere. Ma è difficile da riconoscere e da ammettere. Questo rischio, al pari delle altre ombre che albergano dentro di noi, deve esserci ben presente, non deve essere occultato a noi stessi ma al contrario è nostro dovere tenerlo sempre ben presente. Quando disponiamo di un potere, a maggior ragione se di un potere grande, dobbiamo sempre sapere con chiarezza cosa vogliamo farne, di quel potere, come indirizzarlo. Il potere del guaritore è il potere del sofferente che questi non riconosce in sé e proietta sul terapeuta. È dovere del guaritore trasferirlo, restituirlo al sofferente, operare in modo che il proprio potere diminuisca e quello dell'altro aumenti. Il potere non è mai nostro, passa soltanto per le nostre mani e deve andare verso quelle di coloro che ne hanno di meno.

Andrea Montagnini

giovedì 23 ottobre 2014

IN NOME DEL PADRE

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Qualche sera fa insieme ad un caro amico ci siamo ritrovati a fare alcune riflessioni che vorrei condividere con te, caro lettore, su ciò che oggi rappresenta la figura del padre.

Tutto nasce da un articolo di Giorgio Boatti su "La Stampa", dal titolo a mio avviso sarcastico ma neanche troppo: "Abbiamo fatto la festa al papà". Si tratta di una riflessione sui cambiamenti che hanno coinvolto la figura del padre, il suo ruolo e il tipo di autorità da lui rappresentata nei diversi periodi storici fino ad arrivare ad oggi, recensendo un libro pubblicato da Marco Cavina "Il padre spodestato. L'autorità paterna dall'antichità ad oggi".

È un'interessante carrellata che inizia dalla figura del padre nella civiltà romana, quando la patria potestà era intesa in modo totalizzante: il padre aveva il diritto di vita e di morte sui propri figli, era una grande mano in grado di decidere, anche in caso estremo, sulla stessa esistenza della prole, nonché di dirigere ed esercitare l'autorità in termini di potere assoluto.

L'articolo ricorda che solo con la rivoluzione francese venne abolita la patria potestà in termini assoluti: si trattò di un cambiamento radicale, non solo in termini giuridici, che scardinò una impostazione mentale durata secoli. Certo dovette passare ancora del tempo per arrivare agli anni sessanta del secolo scorso e ai mutamenti giunti insieme alla contestazione giovanile, che hanno sottolineato il primato del singolo, a tutt'oggi vigente come una delle caratteristiche della nostra società individuale e individualista.

La struttura della famiglia si modifica sotto i colpi del pensiero e i ruoli di autorità divengono più sfumati: non si parla più di patria potestà, ma di responsabilità genitoriale, in cui chi definisce le regole per la crescita dei minori sono sempre più spesso altre agenzie formative come la scuola, e altre figure come gli educatori, gli insegnanti, i psicologi, ecc..

Attualmente nell'odierno linguaggio comune il termine autorità credo sia inteso, anche da te lettore, soprattutto come figura giudicante, sanzionante, figura che come tale non ispira una gran simpatia. E' il modo, assai parziale ma molto comune, non di rado tinto di una certa diffidenza e distanza, con cui siamo abituati a pensare a questa parola e al suo significato. Ma forse ti sorprenderà sapere che in origine, etimologicamente, autorità, al pari di autore, derivano entrambi dal latino auctor-oris, che significa colui che promuove la crescita, che fa avanzare, che potenzia. Quanta differenza! Quanta ricchezza di implicazioni si perde in questa nozione se la si limita al solo giudice severo che sanziona!

L'autorità, certo intesa in questa accezione e non in altra, è invece figura indispensabile in qualsiasi relazione interpersonale caratterizzata da una forte disparità di potere (genitore figlio, insegnante allievo, terapeuta paziente e così via): il primo termine di ognuna di queste coppie, l'auctor, proprio in quanto promotore di crescita, proprio in quanto figura che fa avanzare, che potenzia, deve essere in primo luogo una base sicura che permette all'altro, al figlio, all'allievo, al paziente di fare esperienza in un ambiente sicuro in cui possa conoscere e agire: il bambino ha bisogno della sicurezza rappresentata dal genitore per imparare a muoversi con i suoi pochi strumenti nel mondo, per conoscerlo e per agire. Ma chi promuove, chi fa avanzare, chi potenzia, deve poi anche rendere possibile lo scambio fiduciario, sapere essere cioè oggetto di fiducia e in seguito insegnare all'altro a essere lui stesso oggetto di fiducia, perché solo in un contesto fiduciario, in cui l'altro rappresenti sicurezza e affidabilità, la Persona può articolare nel mondo la sua manifestazione.

Certo la figura di autorità, autorevole, promuove la crescita, sprona e incoraggia ma anche ferma, contiene, ricorda e definisce i limiti. Operazione non semplice ma indispensabile: che si tratti di imparare a 'saper fare' (andare in bicicletta, guidare, fare i calcoli) o a 'saper vivere' (avere rispetto degli altri, di sé, avere delle regole di vita, ecc..) la consapevolezza dei limiti, propri e del mondo, è condizione basilare per qualunque azione.

Che significato può avere tutto questo nella nostra società che considera la libertà personale un valore assoluto, che considera la nozione di limite con un certo fastidio, che valorizza l'assenza di limite, la situazione estrema?

Credo, caro amico lettore, che non ci possa essere autentica libertà personale senza etica e morale, senza un chiaro ed esplicito riconoscimento dei ruoli e delle responsabilità che i ruoli comportano: la autorità vera è quella di coloro la cui presenza accresce la sicurezza di chi è più fragile, pone le condizioni perché chi ha meno potere possa svilupparne di più progressivamente colmando il gap di partenza e acquisendo sicurezza, autonomia, affidabilità. L'autorità nel significato etimologico tende a redistribuire il suo potere, ad attenuare il dislivello iniziale, ha fatto la sua parte quando l'altro è diventato a sua volta autorevole.

E il nostro protagonista, il padre, dove si colloca in queste poche righe di riflessione?
Mi piace pensare e credere che il padre, proprio perché portatore di sicurezza e di fiducia, proprio in quanto figura di autorità amorevole debba essere oggi più che mai presente. Presente con la voglia di costruire un ambiente stabile dove poter fare esperienza anche se il mondo cambia di continuo; presente come persona di fiducia, così rara da trovare eppure così indispensabile; presente con la voglia, anche se giornalmente faticosa, di aiutare non solo ad avere tante cose e oggetti, ma ad avere il senso delle cose, il rispetto degli oggetti; presente come voce che sostiene, incoraggia, che sa spronare e sa fermare quando è il caso. Cari lettori che siete anche papà, avete un ruolo difficile ma indispensabile: non scoraggiatevi per questo, non tiratevi indietro, non abdicate, c'è bisogno di voi e del vostro aiuto per crescere e diventare adulti veraci!
  

Elena Iorio

venerdì 10 ottobre 2014

LA NOSTRA LIBERTA' TRA SCELTA E REGOLA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
La mia libertà ... la tua libertà ... Dove finisce la mia comincia la tua ... In quanti modi parliamo di libertà! Che parola importante è mai questa! Oggi noi vogliamo dare un piccolo contributo alla riflessione su questa nozione, senza però farne una faccenda ideologica, senza per forza simpatizzare per questa o quella parte politica: piuttosto per riscoprirla, la libertà, per vedere dove si annida, o almeno provarci, nella piccola concretezza del nostro vivere.

Cosa significa essere liberi? Proviamo a dare diverse risposte. Una potrebbe essere: siamo liberi quando sappiamo cosa fare e quando farlo. Mica male: ma più facile a dirsi che a farsi! D'altronde la libertà ci sembra condizione fondamentale e specifica della Persona: non riusciamo a pensare a una Persona nella pienezza della sua manifestazione e creatività se non come libera, e una Persona non libera ci sembra che fatichi di più a essere pienamente Persona.

Cosa significa essere liberi? Siamo liberi, questa è un'altra risposta, quando sentiamo di avere la capacità, dentro di noi, e la possibilità, fuori di noi, di decidere tra le diverse opzioni che ci si presentano nel quotidiano. Il mondo certamente influenza le nostre decisioni, a volte ostacola la realizzazione dei nostri desideri, ma in quasi tutte le circostanze, se non in tutte, ci rimane sempre comunque un qualche spazio di effettiva libertà entro il quale compiere delle scelte. Forse non sempre possiamo fare, ma sempre possiamo pensare. L'azione ci può venire proibita, ma il dare significato alle cose, no, è ben difficile che ci venga impedito ... almeno finché siamo vivi. Sul dopo, non sappiamo un granché. L'importante è riuscire a riconoscerlo, questo piccolo spazio di libertà che da qualche parte sempre conserviamo.

Talvolta non è facile riconoscerlo, questo spazio di libertà. Altre volte invece le troppe possibilità ci disorientano e ci paralizzano. Una banale influenza limita la nostra libertà, ci costringe a letto, non possiamo uscire di casa, dobbiamo rinunciare ai nostri importanti impegni, ma pensa invece all'improvvisa vincita di una grande somma di denaro, che ci spalanca quasi illimitate possibilità ancora più pericolose della privazione della libertà. Che fine hanno fatto molte delle Persone che hanno vinto somme strabilianti nelle lotterie?

Anche il nostro stato emotivo, il nostro modo di sentirci può limitare la nostra libertà. Quando siamo più incerti, insicuri, fragili, quando abbiamo paura è assai difficile operare delle scelte. In questi momenti siamo assai poco liberi… Scegliere, si sa, implica anche la possibilità di sbagliare, ma proprio poter scegliere ci fa sentire unici e autonomi, ci dà sicurezza. Viceversa dobbiamo essere sufficientemente sicuri e autonomi per permetterci di correre il rischio di sbagliare, e anche davvero magari sbagliare, senza che questo diventi il fallimento della nostra vita!
Nel percorso scolastico, in quello lavorativo e in generale nel percorso di vita nei primi tempi ci troviamo a compiere scelte di minore portata – pensa alle scelte dell'infanzia – e solo in seguito riusciamo ad esercitare la nostra libertà su scelte di portata sempre più ampia, che riguardano noi stessi e gli altri. I genitori nel prendersi cura dei figli devono fare attenzione a rispettare lo spazio di libertà all’interno del quale i figli sono in grado di scegliere e non caricarli di libertà (e responsabilità) che non competono loro e che non sarebbero in grado di reggere. Se i primi assumeranno sulle loro spalle la responsabilità delle proprie decisioni, se decideranno quando è compito loro decidere, i secondi progressivamente impareranno a farlo e a crescere liberi.

Poi c'è il complesso rapporto fra la libertà il suo opposto, fra libertà e regola, vincolo.
Non ha senso parlare di luce se non in relazione a oscurità, e viceversa. Così non ha senso parlare di libertà prescindendo da vincolo, da regola. La parte naturale di ciascuno di noi, il corpo, è caratterizzata dalla regola, come la natura che ci dà origine: l’alternarsi del giorno e della notte, l’inspirazione e l’espirazione, il battito cardiaco. Cosa succede quando queste regolarità si alterano? Non è, proprio oggi, una preoccupazione planetaria tentare di interferire il meno possibile con le regolarità naturali (oggi si dice ambientali) per garantire un mondo vivibile ai nostri figli? È proprio il senso di responsabilità, verso noi stessi e verso gli altri, a ricordarci l’importanza della regola nei rapporti fra noi. Non essere i soli al mondo ci ricorda che libertà non può significare capriccio, il capriccio infantile di chi ignora che il resto del mondo è la base del suo stesso esistere: la vita in comunità implica il rispetto delle regole… Ma attenzione: questo proliferare di regole non ci rende meno liberi, al contrario delimita con precisione l'ambito delle scelte e per questo le rende possibili. Perché le regole sono vincoli e insieme mattoni per ogni costruzione.
Non posso fare nulla escludendo qualsiasi regolarità. Libertà avulsa da regola, contrapposta a regola diventa capriccio distruttivo.

Cosa significa essere liberi? Significa anche esprimere la propria creatività: l’artista, il progettista, il politico apportano delle innovazioni e dei cambiamenti nel mondo, ma non dimentichiamo che anche ciascuno di noi lo fa, creando la propria vita secondo le proprie inclinazioni, secondo la propria virtute, la propria norma. L’originalità tipica di ogni atto creativo è sempre collegata a una qualche regola che rappresenta il mattone della costruzione creativa. Se la creatività perde la regola diventa arbitrio, e non libero (arbitrio). Creare il nuovo impone la conoscenza della regola: comunque, per essere infranta o superata dovrà pur essere conosciuta! Qualsiasi invenzione o innovazione è preceduta sempre da una profonda conoscenza della materia e delle regole che sono alla base per la costruzione creativa.


Claudia Fè ed Elisa Vigna

venerdì 29 agosto 2014

COSI' FAN TUTTE di Wolfgang Amadeus Mozart

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose

L'Associazione Cura e Cultura 

organizza, nell'autunno 2014, due seminari introduttivi all'opera lirica 

"COSI' FAN TUTTE" 
di Wolfgang Amadeus Mozart 

e la successiva visione dell'intero spettacolo. 

Per l'intera manifestazione verranno utilizzate diverse versioni dell'opera tutte di alto profilo culturale. Durante i seminari verrà letto e analizzato il libretto e le arie di maggiore rilievo dell'opera.

I seminari si svolgeranno presso Casa Iorio, corso Vercelli 258 a Ivrea (TO) nei giorni:
28 settembre 2014 - ore 14.00-18.00
26 ottobre 2014 - ore 14.00-18.00

La visione completa dell'opera avverrà, sempre a Casa Iorio,  il
23 novembre 2014 - primo atto ore 10.00-12.00, secondo atto ore 14.30-17.00

(l'Associazione organizzerà, per il giorno 23 novembre; anche un pranzo a prezzo agevolato in un ristorante nei pressi di Casa Iorio

Il costo dei due seminari più la visione completa dell'opera è di 70€. Per chi non l'avesse ancora pagata, occorre aggiungere la quota associativa 2014 di 50€

Per info e prenotazioni telefonare al 3389685286 o scrivere a curaecultura@gmail.com


mercoledì 27 agosto 2014

UNICITA' E PRIMATO: NON CONFONDIAMO PER FAVORE...

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Cara lettrice, caro lettore, vorrei iniziare questo nostro piccolo dialogo dicendovi prima di tutto chi sono e su cosa cercherò di riflettere insieme a voi. Sto per laurearmi in psicologia: da una parte sono contenta del compito che mi viene affidato, scrivere questo articolo, ma dall'altra sono anche un po' preoccupata, per la mia giovane età, per la mia poca esperienza nello scrivere, soprattutto su un tema così importante, per me e credo anche per te, quale l'unicità della Persona, di ciascuno di noi.
Cercherò quindi di esporti i miei pensieri, nella speranza che siano anche un po' i tuoi e che suscitino in te qualche emozione e, perché no? il desiderio di rispondere a queste mie righe.
Sai, la prima cosa che mi viene in mente quando mi trovo a riflettere sull'unicità, sull'essere unici - proprio esattamente come me non c'è nessuno, ma neanche esattamente come te, possiamo qualche volta somigliarci tanto ed essere anche gemelli, ma tu guardi sempre il mondo da un punto diverso dal mio e in quel punto ci sei solo tu, quel punto sei tu e nessun altro può occuparlo - scusami il lungo inciso: ti dicevo, la prima cosa che mi viene in mente, quando penso all'unicità, è il momento "magico" della nascita. Nascendo, siamo subito di fronte alla prima esperienza di unicità, occupiamo un piccolo posto nel mondo, in quel posto e a quell'ora, che nessun altro occuperà mai più in futuro e non ha neppure mai occupato in passato.
Sembra una cosa ovvia, no? persino banale, ma non ti sembra lo stesso stupefacente?
Non nascerà mai più una Persona come te: con i tuoi tratti, il tuo temperamento, il tuo carattere bello o brutto che sia, le tue particolarità, le tue tenerezze, le tue simpatie e antipatie, i tuoi slanci, le tue tristezze. Tu eri unico già allora, quando venisti al mondo, anche senza aver ancora compiuto alcuna impresa memorabile e neppure banale.
Ovviamente la tua unicità non si limita al nascere - sembra proprio che non sia un fatto tanto raro ed esclusivo, nascere - ma, ti ripeto, da quel posto, a quell'ora, comincia qualcosa che premerà dentro di te per tutta la vita e ti costringerà, volente o nolente a essere, anzi a diventare quello che sei nel tuo particolare modo di essere, di esprimerti, di ricercarti e di trovarti, così caratteristico, così diverso da quello di chiunque altro.
Comincia qualcosa, in quel posto e a quell'ora, di unico e prezioso, che però, attenzione, è destinato a scomparire e anche a morire senza un TU che lo riconosca per quello che è, che gli dica "questo sei tu!".
Come afferma Jessica Benjamin (1995), senza il riconoscimento dell'altro noi non potremmo mai, non solo essere, ma neppure sentirci noi stessi. L'autrice lo dice riferendosi alla prima relazione intima della nostra vita, quella con la madre e ricordando l'importanza estrema che essa svolge per il nostro sviluppo e la nostra sicurezza. Penso a due modi dell'amore già presenti in questa relazione primaria e che potranno ripresentarsi in quelle future: una mamma guarda il suo bimbo, lo riconosce e lo ama per quello che è, perché è lui; oppure una mamma elogia e gratifica il suo bambino quando questi supera se stesso e compie qualche impresa particolare. La mamma del "ti amo perché ci sei", e la mamma del "ti amo per quello che fai". Si tratta di forme d'amore complementari, entrambe necessarie, ma che devono essere presenti in un delicato equilibrio, senza che nessuna delle due soffochi l'altra: certo, l'aspetto volto al rinforzare e all'incentivare il bambino a fare del suo meglio è importante e deve essere presente nella relazione. Ma se è eccessivo, se spinge soltanto alla competizione, se spinge soprattutto a vincere contro l'altro (e quindi a combatterlo!), se fa dimenticare l'importanza del cooperare fa anche dimenticare che l'altro, il tu, è aspetto fondante della mia stessa identità. Allora i pericoli sono grandi: rischiamo di cadere in una frequente confusione, quella di associare l'unicità di una Persona al primato che essa ha in un determinato ambito (quante volte sentiamo dire "sei unico" riferito ad una particolare dote canora, calcistica.). Ma la nostra unicità è una questione di qualità, siamo unici per l'irripetibile combinazione di qualità che ci caratterizza, mentre il primato è questione di quantità. È ben diverso sentirsi unici per ciò che siamo dal sentirci unici quando siamo in cima alla classifica e abbia vinto sull'altro.
Ma come fa l'altro, il tu, a essere specchio fondante della mia identità se lo vedo sempre solo nell'ottica del vincere-perdere, del primato a tutti i costi, della competizione? Noi non possiamo fare a meno dello sguardo degli altri, del loro punto di vista. Ciascuno di noi, tu, io, lui è un balcone sull'universo, ci rivolgiamo agli altri, interagiamo continuamente con loro e ne abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di tutti gli altri balconi per poter crescere ed esprimerci, ognuno ci è prezioso per allargare il nostro punto di vista e vedere ciò che da soli non possiamo vedere. Il mio punto di vista, ciò che vedo da quel balcone è un piccolo settore, e io non vedo quello che vedi tu e il tuo punto di vista, sicuramente diverso dal mio, mi è unico, prezioso e mi arricchisce.
Unicità non significa primato, neppure perfezione. Significa singolarissima combinazione di qualità, intrinseca in ognuno di noi, significa firma di un particolare modo di essere e di stare al mondo, che non ha eguali. Dell'essere tu, lettrice o lettore, ce n'è proprio solo uno al mondo e se lo dimentichi, se dimentichi il tuo valore, il tuo sconfinato valore, la tua vita appassisce! Spero di aver mosso qualcosa dentro di te e sarei proprio contenta di ricevere poche righe (o tante, se vuoi) per sapere come la pensi tu al riguardo. Per tutto l'articolo mi hai sentito parlare dell'importanza dell'altro e del suo punto di vista per completare il nostro. Quindi ora ti invito a farlo, per completare il mio. Se ti va, ovviamente!

Tamara Da Canal e Giorgio Moschetti

mercoledì 23 luglio 2014

NOI SIAMO LA NOSTRA STORIA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Forse questo titolo ti fa pensare alla storia in senso scolastico, a date, a battaglie, ad avvenimenti in genere. Nel nostro pensiero questa è una delle tante storie anzi, forse, è la storia con la “S” maiuscola, quella che di solito scrivono i vincitori riportata nei libri che studiamo a scuola. Fondamentale certo per capire la cornice del tempo in cui viviamo, certo, chi siamo e dove siamo collocati. Questa storia è la nostra memoria, ma non è la sola. Caro lettore, hai mai riflettuto sul fatto che anche tu, come ogni essere umano, hai una storia di cui sei parte, fatta di luoghi, immagini, ricordi, persone e sentimenti?
Ma quando, ma come nascono la tua, la mia, le nostre storie personali?
La nostra storia comincia nel momento in cui diventiamo un progetto nella mente di qualcuno: da lì parte il tutto, la ricerca della nostra presenza o il prendere atto che già ci siamo senza essere stati così coscientemente pensati. Questo è già parte di noi, del modo in cui le persone pensano a noi prima ancora della nostra presenza fisica nel mondo.
E come?
Questo è il nostro primo bivio, quello che dà una prima direzione alla nostra esistenza: possiamo essere il figlio desiderato dopo tanti anni, l’ultimo figlio di una famiglia numerosa, possiamo essere il maschio - la femmina che tutti aspettavano o meno, possiamo essere sani o avere un problema fisico, possiamo essere una sorpresa fatta di meraviglia, stupore, ma anche di dolore e sofferenza.
Venire a conoscenza del come siamo stati pensati corrisponde già ad un primo passo in una delle innumerevoli possibili direzioni della nostra storia.
Chi scrive la nostra storia?
All’inizio della nostra esistenza, lo dicevamo poco fa, ciascuno di noi a seconda della sua sensibilità può collocare il caso, o la natura, o una volontà divina (qualunque nome noi le diamo), o altro ancora. Noi pensiamo che sia come lo scrittore che intinge la penna nell’inchiostro e traccia il primo segno.
Ma chi dà un senso a ciò che è stato scritto e continua a tracciare altri segni?
Certo è molto semplice pensare che sia lo stesso scrittore iniziale a proseguire il proprio lavoro e che quindi tutto dipenda da lui, senza volontarie interferenze da parte di nessuno. Ma allora, caro lettore, se è tutto già immutabilmente predeterminato, che ce ne facciamo della mia e della tua volontà, della nostra capacità di decisione, del nostro libero arbitrio? Sono solo pallide illusioni o esistono veramente?
Noi crediamo che esistano e che siano fondamentali. Hermann Hesse scrisse: “Il destino non viene… da una sola direzione, ma cresce dentro di noi”. E qui che il nostro libero arbitrio, la nostra capacità di scelta, il nostro muoverci nel mondo acquistano significato. Dopo quel primo segno tracciato, siamo noi che dobbiamo prendere in mano la penna e continuare a scrivere la nostra storia, responsabilmente, consapevoli anche degli inevitabili errori che sicuramente sono parte del nostro cammino.
Che senso ha nella nostra vita conoscere la nostra storia?
Riflettere sulla nostra storia, ci aiuta a darle un significato, una direzione, a sapere chi siamo e dove vogliamo andare, a diventare non solo attori di una parte pensata da altri, ma scrittori, registi e protagonisti della nostra esistenza, diventando autentici artefici del nostro destino.
È veramente triste interpretare come semplici “attori” una vita scritta da altri: è vero, ci solleva da tante responsabilità, ma ci lascia uomini internamente piccoli. Il fatto, caro lettore, è che se anche tutto ciò richiede fatica e impegno è tuttavia la sola, proprio l'unica chiave per aprire la porta a un vivere pieno di significati.
Siamo parte della nostra storia o è lei che è parte di noi?
La domanda è pretestuosa: in realtà solo l’integrazione di queste due parti ci aiuta ad aprire quella porta, solo il loro completarsi, il loro fondersi diventando un tutto ci permette di crescere e vivere come esseri umani veramente completi. Noi pensiamo che proprio questa sia la vera responsabilità di ognuno di noi: il cercare il senso, il chiedersi il perché e non accontentarsi di risposte facili e già preconfezionate da altri. Vivere la nostra storia è esserci al completo con la mente, con il cuore e con l’anima.
Forse aveva avuto la giusta intuizione Oliver Wendell Holmes quando affermò che … “La vita è come dipingere un quadro, non come tirare una somma!”.



Giuseppe Cappuccio, Elena Iorio

mercoledì 9 luglio 2014

PERSONA E CORPO

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Caro lettore, oggi ci ritroviamo per riflettere su un argomento molto importante: il corpo, che in primo luogo è sempre il nostro corpo. Che cosa rappresenta per noi il corpo? Non è soltanto un oggetto tramite il quale abitiamo questo mondo, ma è la parte di noi che collega la nostra psiche al mondo stesso. Purtroppo nelle società occidentali siamo soliti suddividere nettamente la mente dal corpo come fossero due aspetti distinti e non piuttosto modalità diverse con cui la stessa realtà si manifesta. Questa tendenza trova origini antiche sin dalla filosofia cartesiana, è profondamente radicata nella nostra società, ma questa separazione non trova alcun riscontro nella nostra realtà vissuta.

Lettore caro, pensa per esempio a quando stai vivendo un’emozione, a quando sei felice oppure arrabbiato. L’emozione è un profondo movimento psichico che produce cambiamenti corporei evidenti, per esempio l’aumento del battito cardiaco, della sudorazione e del rossore in viso. Questi cambiamenti corporei trovano origine nella psiche e quindi non riescono più di tanto a essere controllati. Ti è mai capitato di parlare in pubblico o di fronte a un gruppo di persone? Pur riuscendo a controllare il messaggio da trasmettere non riuscirai a impedire più di tanto che le tue emozioni si manifestino nel corpo. Il corpo è quindi il luogo di quel sentire che tutti i giorni sperimenti nelle situazioni di vita più disparate.

Prestando più attenzione ai messaggi del corpo, possiamo essere più consapevoli del rapporto che abbiamo con esso. Nella quotidianità parliamo spesso del corpo, ma siamo ossessionati dai modelli di bellezza corporea che ci vengono propinati dalla televisione e dalle riviste patinate. L’esagerata attenzione al corpo ci porta addirittura a modificarlo utilizzando strumenti offerti dal mercato e volti a rimuoverne i difetti, creme dell’eterna giovinezza, abbronzature artificiali e interventi estetici. Ma cambiare il corpo per conferirgli un’immagine migliore non è sufficiente a raggiungere il benessere: molto spesso alcune di queste pratiche risultano deludenti. Il bisturi della chirurgia estetica non scaccia le nostre preoccupazioni circa i difetti corporei e non rappresenta la chiave della felicità, anche perché i cosiddetti difetti corporei, tranne alcuni casi di per sé evidenti, non sono difetti del corpo, ma sono il modo in cui ci accorgiamo che non ci accettiamo come Persone. E allora il punto non è spegnere il campanello d'allarme del difetto corporeo con il bisturi, bensì imparare ad accettarci nella nostra totalità, imparare ad accettarci come un dono prezioso così come siamo.

Caro lettore, ma perché modificare il tuo corpo che è unico e prezioso come sei unico e prezioso tu? Il tuo corpo si riveste ogni giorno di nuovi significati, a partire dalla nascita, quando gli adulti che ti attorniavano erano soliti ricercare le somiglianze con i genitori e con i parenti. Il nascituro è un essere unico, ma quanto già portatore di somiglianze! Nella crescita il corpo cambierà, eccome: ci saranno sicuramente cambiamenti dolorosi, altri ti porteranno serenità, altri ancora avranno entrambi i risvolti. Nel continuo cambiamento del tuo corpo potrai seguire il cambiamento della tua anima, pur continuando tu sempre a sentirti te stesso. Per questo è importante che tu sappia gioire della tua crescita e anche del tuo invecchiamento poiché le tue rughe e i tuoi capelli bianchi sono portatori dell’esperienza che hai maturato negli anni come Persona che è vissuta in questo mondo.

Il corpo ci parla, e le sue parole sono utili per comprendere che qualcosa non sta andando per il verso giusto, per questo è importante non ignorarle. Spesso il dolore corporeo, a meno che non si imponga da solo, è sottovalutato, abbiamo tanto da fare, gli impegni quotidiani, la famiglia, il lavoro, lo studio... Se stiamo bene poi viviamo con la convinzione, più o meno consapevole, che certe malattie capitino soltanto agli altri, a noi non capiteranno mai! E quando invece ci capitano – perché ci capitano, no? – ci sembra di essere stati traditi, che il corpo ci abbia tradito. Sempre percepiamo una brusca interruzione della nostra vita, al centro della quale si situa ora improvvisamente la malattia.

La malattia come prova per eccellenza, come verifica radicale della Persona sui grandi temi del vivere e del morire: il corpo ci parla, e ci parla sempre, anche se le sue parole possono essere tremendamente difficili da ascoltare. La sofferenza tuttavia acuisce lo sguardo e ognuno di noi ha qualcosa da dire al proposito, qualche esperienza che l'ha segnato e che gli ha insegnato. Tu, caro lettore, vuoi farci dono della Tua testimonianza scrivendoci su questi temi? Le Tue parole daranno un senso alla nostra riflessione e ci incoraggeranno a proseguire.


Elisa Vigna

mercoledì 25 giugno 2014

IL BELLO NEI GIORNI

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Ci fa bene tenere bello il luogo dove riposa chi si è amato tanto. È vero, rimane solo quello da fare, ma non è poco. E ne abbiamo bisogno, di quei pochi gesti, anche se l'andare in quel luogo è desiderato quasi lietamente, quasi ci si avvicinasse così a chi non è più qui con noi o lo è come non era mai stato prima, e il tornarne è sempre greve e le gambe pesano assai più al risalire quelle scale dopo quei pochi gesti che non al discenderle prima. Pure ci fa bene farli, quei pochi gesti, raccogliere qualche foglia secca, ridare delicatamente forma ai fiori scompigliati dal vento, dare un po' d'acqua, perché quel luogo sia ben tenuto, sia bello, sia in ordine. Non ci rimane che quello da fare, ma non è poco.

Tanto ci fa bene la bellezza, tanto cura le peggiori sofferenze, gli strazi senza nome. Perché bellezza e amore sono sempre inscindibilmente connessi, quale che sia la bellezza, quella che noi sappiamo offrire, con i nostri poveri mezzi. Una chiama l'altro, uno chiama l'altra: la bellezza ci risveglia alla capacità di amare, tante volte inoperosa, lasciata languire mentre il mondo diventa grigio, ci ricorda che nonostante tutto siamo sempre capaci di amare. E l'amore a sua volta introduce la bellezza nel mondo, lo riveste di bellezza e di splendore, lo rende bello e trasparente.

Questo può accadere in qualsiasi momento, caro lettore, nel piccolo delle nostre giornate, nelle nostre piccole case. Perché il bello salva, diceva Roberta De Monticelli, ma per accorgersene bisogna aver sofferto. E tu, lettore, hai mai sofferto?

Perché il bello ci salvi, perché lenisca la nostre sofferenze, occorre però che già abiti dentro di noi, anche se poco, anche se solo nella forma di vaga nostalgia – ah, poter conservare a memoria le poesie, permettere loro di irraggiare bellezza per tutta la vita dall'intimo della nostra mente ... Solo se ha nidificato inavvertito nei riposti anfratti dell'anima sappiamo riconoscere il bello quando ci sfiora durante le giornate, cosa che sempre fa nonostante i nostri occhi opachi e distratti. E perché abiti dentro di noi, occorre che noi ce lo propiziamo, che lo pensiamo, che lo rincorriamo spendendo qualche energia in suo onore. Lo possiamo fare sempre, questo sacrificio (sacrificio = fare sacro, una volta aveva una connotazione gioiosa, scegliere un dono è una gioia di per sé). Non è tanto lontano, il bello, non appartiene soltanto ai musei o alle sale da concerto, né tanto meno soltanto al lusso: ormai poi quel bello, dico quello della grande arte, ce l'abbiamo a disposizione come mai in precedenza, i mezzi di comunicazione, di riproduzione... Una volta si doveva viaggiare a lungo per raggiungerlo, Bach andò a piedi a conoscere e sentire il grande maestro Buxtehude da Arnstadt a Lubecca (circa 400 km...). Lo si raggiungeva con fatica e certo questo aiutava a goderne assai più e con maggiore profondità, come di tutte le cose condite dal sudore. Adesso è a portata di mano e rischia di passarci davanti agli occhi inavvertito. Pure c'è, è lì che occhieggia in qualunque edicola per strada.

Pure, portare la grande arte nel quotidiano delle nostre case ha senso solo se sappiamo rintracciarne le radici in ogni nostro piccolo fare quotidiano, solo se riusciamo a riconoscere che essa ci riguarda sempre personalmente, che ci aiuta a ritrovarci, a capire chi siamo, come siamo fatti. Essa continua a parlarci, incurante del tempo e dello spazio, in attesa che riusciamo a prestarle ascolto e a permetterle di agire su di noi. Non dobbiamo lasciarcene intimidire e soprattutto non dobbiamo relegarla, insieme alla bellezza, nel lusso. È arte grande proprio perché parla di tutti noi, delle nostre vite. Io credo che qualcosa sempre accomuni i grandi capolavori e i piccoli nostri gesti di ogni istante. Lo so, una grande distanza mi separa da Mozart o da Dante, ma sono molto più le cose che abbiamo in comune fra noi in quanto esseri umani, che non quelle che ci separano. Perché i grandi capolavori non sono prodotti da marziani, da gente che appartiene a un altro mondo: sono le parole di gente di questo mondo, lo stesso nostro, gente come noi che però ha amato, amato tanto, assai più forse di quanto siamo capaci noi con la nostra paura, che ha saputo darsi con tenacia e fermezza e pienezza a ciò che amava. Ognuno di loro ha da insegnarci qualcosa. Mozart, Beethoven, Michelangelo, per dirne solo alcuni: il loro fare è un continuo richiamarci, anche severo, è un continuo prenderci per il bavero e ricordarci pressante ma stai vivendo davvero, o dormi? o fai solo finta di vivere? Perché se vivi sul serio devi poter vedere e godere di ciò che ti ho donato a costo della mia vita.

Ogni grande opera d’arte è un dono che ci avvicina alla pienezza del vivere. Ma anche ogni piccolo lavoro ben fatto in casa nostra è un dono, purché ben fatto, fatto con dedizione, con amore, con tenacia, è un dono a chi ci sta intorno, al mondo intero. Ognuno di noi può nei suoi piccoli lavori avere presente Mozart, la grazia, la tenerezza, la delicatezza. La più umile, semplice e banale cosa, se fatta con dedizione e amore, è un dono prezioso. E qualunque cosa facciamo è alla fine sempre destinata a un altro, da un cuore può andare a un altro cuore. Beethoven, sordo e considerato un po’ matto alla fine della sua vita, anche un po’ troppo confidente con il vino, oltre ad alcuni dei più enigmatici interrogativi posti alla mente umana in ogni tempo (le ultime fughe ...) produsse la quintessenza della tenerezza nelle sue ultime sonate, negli ultimi quartetti.

L’artista non è un tipo speciale di uomo, ma ognuno di noi è un tipo speciale di artista.


Giorgio Moschetti

mercoledì 11 giugno 2014

LA FELICITA' DEL NUOVO

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Un po’ titubante inizio a scrivere questo articolo: sono una giovane laureanda in psicologia cui è stato chiesto, caro lettore, di condividere con te alcune riflessioni ed emozioni. Se da un lato i timori di non riuscire nel mio intento non mi abbandonano, dall’altro sento il forte desiderio di affrontare con te questa nuova esperienza. Perché questo mio desiderio di riflettere sul nuovo? Forse per i cambiamenti, inevitabili portatori di gioia e sofferenza, che soprattutto in questo periodo mi trovo ad affrontare?

Nascere, crescere… invecchiare: è un lungo tragitto. E sappiamo bene quanto in certi casi possa essere faticoso e difficile. Roberta De Monticelli ci ricorda che Agostino per primo pensò il tempo dell’uomo come continua genesi del nuovo. La vita è continuo divenire: un fiume che scorre incessantemente. E il nuovo è ciò che sempre ci si pone davanti, accogliente o minaccioso: quel masso più o meno grande a cui possiamo permettere di bloccarci, oppure che possiamo scegliere di aggirare, di spostare o di saltare. Qualche volta il nuovo ci sembra un ostacolo, qualche volta un dono, qualche volta entrambe le cose.

Certo ogni tanto siamo tentati di rifiutarlo, il nuovo. Certo è una soluzione che desta meno terrore di altre, che spaventa di meno, che sembra tranquillizzarci. Ma questo non vuol dire che faccia soffrire di meno: al di là delle apparenze immediate otteniamo solo dei falsi vantaggi. Perché accogliere il nuovo significa metterci in gioco, e questo ci può costare caro, significa lasciare la strada vecchia per la nuova, e questo è un rischio che tante volte abbiamo paura di correre: d'altronde il fiume della vita nel suo fluire, incurante delle nostre scelte arriverà al mare, quella sarà la meta. Che senso ha, dunque, parlare di felicità del nuovo, se il nuovo ci fa anche soffrire? Non dovrei parlare solo dei suoi aspetti positivi? Un passo alla volta: prima della fine di questo breve articolo spero di riuscire a spiegare cosa intendo.

Cosa ti viene in mente, caro lettore, pensando al nuovo? Io mi ritrovo a pensare a quello che per me è il nuovo per eccellenza: la Nascita. Al momento dell’entrata nel mondo tutto è nuovo come non possiamo neanche immaginarci. E infatti la nascita è anche la prima esperienza di angoscia: dover respirare per la prima volta, per la prima volta non essere più un’unica cosa con la mamma ... Quanti forti rumori che spaventano e che avevamo sempre sentito così lontani e ovattati! E pensa alle madri: se possono ben descrivere la felicità del mettere al mondo, allo stesso tempo ne conoscono bene la sofferenza.
Ma il nuovo ci viene incontro anche nei diversi ruoli che ci tocca assumere nel nostro vivere. Pensa ai nuovi contesti a cui spesso dobbiamo adattarci, ai cambiamenti nel lavoro, spesso accolti con timore, magari mescolato a curiosità.

Ma questo nuovo, di cui sto parlando, non è solo là fuori, non è solo la varietà e novità del mondo esterno. È anche quel divenire psichico che è dentro ognuno di noi, nel nostro mondo interiore: il nuovo viene anche da dentro, dai nostri sogni di ogni notte! Nel divenire psichico ci sono infatti i tratti di quello che saremo domani. Se appena gli diamo un po' di attenzione, il divenire psichico dentro di noi ci apre tutto il ventaglio delle nostre possibilità future e per questo possiamo vedere nel nuovo una risorsa, una ricchezza. Mille volte abbiamo guardato quella persona, e a un certo punto ci appare improvvisamente in una luce diversa, vediamo cose di lei che avevamo sempre avuto sotto gli occhi ma delle quali non c'eravamo mai accorti! Torniamo a casa dopo una vacanza, e il luogo in cui viviamo ogni giorno, la nostra stessa quotidianità ci appaiono diversi. Questo intendo quando scrivo che il nuovo viene anche da dentro: sono i cambiamenti in noi indotti dalla vacanza a farci scoprire casa nostra come nuova.

Termino con un'ultima considerazione: non dobbiamo porci nei confronti del nuovo in una posizione d’accettazione passiva, non dobbiamo limitarci distrattamente ad aspettare che avvenga. Ricordiamo invece quanto scrisse Agostino d’Ippona.: l’uomo fu creato perché si desse il nuovo. Per accedere alla pienezza della presenza ci è necessario e indispensabile accoglierlo positivamente, il nuovo, e integrarlo in noi stessi. Sta a noi, dipende da noi, riuscire a provare la felicità del nuovo!


Claudia Fè

martedì 3 giugno 2014

CONCERTO DEL CORO DOLCEMENTE E DELL'ENSEMBLE DI NOTABENE




Vi segnalo con molto piacere che, insieme all'Associazione Culturale NOTABENE a.p.s. di Ivrea (www.facebook.com/notabeneivrea), abbiamo organizzato un Concerto Vocale Strumentale che si terrà sabato 7 giugno prossimo presso il salone multiuso di Colleretto Giacosa alle ore 17. Nella prima parte canterà il Gruppo polifonico Dolce Mente (www.curaecultura.com/gruppo%20voce.htm), mentre nella seconda si esibiranno allievi e insegnanti della scuola di musica gestita da NOTABENE.

L’Associazione culturale NOTABENE ha sede in Ivrea ed è guidata da un direttivo di giovani musicisti e insegnanti di musica del Canavese e dei Comuni vicini. Ha attivato in questi anni numerosi corsi di strumento e di teoria musicale con metodi didattici innovativi. NOTABENE, val la pena di sottolinearlo, è anche sede, per gli esami di strumento e di teoria musicale, dell’ASSOCIATED BOARD OF THE ROYAL SCHOOL OF MUSIC (ABRSM), leader mondiale nell’organizzazione di esami musicali e valutazioni a ogni livello (www.abrsm.org). NOTABENE organizza saggi per i suoi allievi, seminari a tema, concerti, serate di videoproiezione e molte iniziative a sfondo culturale e musicale. 

Noi di Cura e Cultura siamo particolarmente lieti di aprire con questo concerto una collaborazione con NOTABENE che speriamo lunga e fruttuosa.


mercoledì 28 maggio 2014

IL TUO STILE DI VITA E' IMPORTANTE PERCHE' E' IL TUO

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Prendere atto del tuo divenire psichico, riuscire ad accorgersi che è la fonte del tuo modo di abitare casa tua, di cenare alla sera con i tuoi amici, di riordinare le stoviglie e le stanze il giorno dopo nel silenzio della domenica mattina... Abu Kasem doveva imparare a cambiarsi le babbucce più spesso, doveva imparare ad accettare positivamente quello
scorrere della vita dentro di sé, quel divenire psichico grazie al quale tu – questo voglio dirti oggi, lettore paziente e affezionato – tu sei unico al mondo! Non ci badiamo mai, ma ognuno di noi è un esemplare unico, firmato. Assai prima di illuderci di valere di più grazie ai vestiti griffati, lo siamo già, firmati, con timbro di autenticità: pensa alle impronte digitali, pensa alla tua voce, al tuo dna. Tante volte non ci sentiamo unici, ma lo siamo comunque! Perché vedi, tu solo al mondo, in tutta la storia dell'umanità, tu solo, e nessun altro, ma proprio nessun altro, tu solo hai occupato la minuscola casellina spazio temporale del luogo e della data della tua nascita. Nessuno mai nella storia dell'umanità finora, e nessuno mai in futuro potrà accedere a quel particolarissimo modo di vedere il mondo che hai occupato tu quel giorno a quell'ora, quando tua madre tirò un respiro di sollievo e smise di soffrire.

Ti chiederai: perché tutta questa tirata sul dove e sul quando venisti al mondo – luogo e data di nascita? Perché da quella casellina prende il via il tuo stile di vita, tu cominci a fare quello che – è vero – fanno tutti, ma nessun altro in tutta la storia dell'umanità l'ha fatto e lo farà mai come lo farai tu. Avrai visitato dei reparti di maternità, no? Avrai visto come i neonati siano tutti quasi uguali appena nati. Ci si sbaglia facilmente dietro il vetro della nursery, ah il tuo è quello, non questo che stai salutando. E avrai pure notato che nel giro di poche ore le mossette del tuo cominciavi a riconoscerle subito, tanto erano irresistibilmente diverse da quelle del vicino, il modo di stirare le braccine, di toccarsi il viso, di aprire la boccuccia. Tutto subito rivelava uno stile particolare, il suo – c'era già, ed era nato poche ore prima! – inconfondibile, quello che avresti ritrovato, quelle mosse e quello stile, venti anni dopo nel ragazzone che ti girava per casa.

Prendiamola da un'altra parte: da bambino, a maggior ragione se avevi dei fratellini, capitava che mamma o i nonni si sbagliassero e ti chiamassero con il nome di un fratellino. Eri piccolo e sapevi ben poco di te e del mondo, ma una cosa la sapevi di sicuro: che il tuo nome era il tuo, che quando veniva pronunciato eri tu quello che rispondeva e lo sbaglio innocente della mamma stanca o dei nonni dentro ti offendeva sempre un poco. Lasciamela dire un po' più complicata: da subito, da prestissimo, da quando tu ricordi e forse anche da prima, nel tuo divenire psichico, caro lettore, è sempre brillata un’istanza di unicità che chiedeva di essere vissuta, che sembrava quasi già presente prima di essere vissuta, e che chiedeva, pretendeva a tutti i costi di essere riconosciuta dagli altri. E guai nel tuo piccolo se i grandi non ci facevano attenzione.
Sono io, ti sei accorto, accidenti, che sono io?
Questa istanza accompagna tutta la tua vita, forse è lei a spingerla avanti, inesorabilmente: le hai sempre obbedito – guai se non lo facevi – e senza pensarci tanto hai sviluppato poco alla volta, hai perfezionato il tuo stile di vita, che è poi il modo di vivere che meglio ti consente di fare le cose che hai da fare su questo mondo. Lo stile di vita è tuo come la tua firma, come le tue impronte digitali, è assolutamente unico al mondo e proprio per questo è pieno di valore: nessuno, ma proprio nessun altro può vedere le cose come le vedi tu da quella casellina in cui ti sei insediato tanto tempo fa! Ti rendi conto? Solo tu puoi comunicare agli altri quello che del mondo si vede da quella prospettiva! E lo fai vivendo come vivi, con il tuo modo, con il tuo stile.

Ma te ne dimentichi, tutti noi fatichiamo a ricordarcelo. Siamo proprio fatti strani: facciamo tanta attenzione alle cose più complicate e ignoriamo quelle elementari. Le quali, non perché sono così elementari, sono meno vere e basilari. Il nostro stile di vita ci sta addosso come le pareti di casa nostra e come quelle ci è talmente abituale che non lo vediamo più. Solo che se lo ignoriamo, non ci accorgiamo di quanti tesori contiene, così come peraltro casa nostra.
Per tante ragioni non gli diamo importanza. Te ne dico un'altra, stammi a sentire: certo da una parte è seducente sapere che ho qualcosa che nessun altro ha mai avuto e mai avrà. Il mercato lo sa, e ci spinge a personalizzarci comperando cose che avremo in esclusiva, solo noi ovviamente insieme a moltissimi altri, per la gioia del fatturato. Ma così facendo perdiamo proprio quello che cerchiamo. Perché nessuno meglio di te ha a portata di mano la tua originalità, purché tu non la dimentichi, nessun pubblicitario meglio di te può sapere in cosa sei unico e irripetibile. Se cadi nell'illusione di personalizzarti con i beni di consumo, ti irreggimenti con infiniti altri e ti allontani un po' dalla tua unicità. Aumenti il fatturato delle aziende ma sei un po' più lontano da te stesso e ti accorgi di meno del tuo valore reale.
Il mercato poi sfrutta un altro piccolo fenomeno psicologico: essere unico al mondo, irripetibile, farlo notare è certo desiderio irresistibile, così quell'istanza di unicità così forte viene placata, bene. Ma ha sempre un risvolto un po' conturbante, espone a una certa vertigine. Espone al brivido della solitudine, solitudine che è l'altra faccia dell'unicità. Più sono unico, più sono solo, anche questo è abbastanza ovvio. Ma il mercato ti offre trionfante la luna nel pozzo, la botte piena e la moglie ubriaca: compra, sarai unico, come tutti gli altri, così non devi neppure patire la solitudine!
Ma il tuo compito su questo benedetto mondo è essere te stesso. Solo se tu sei tu, se vivi e indossi il tuo stile di vita come il più comodo abito possibile, solo così riesci anche a vedere l'altro per quello che è, riesci a vedere il suo stile. Anzi ti dirò di più, se tu riesci ad accorgerti e a rallegrarti della tua intima originalità, il tuo sguardo aiuterà anche l'altro a ritrovare la sua e con essa il proprio stile di vita. Se il tuo sguardo vede soltanto la conformità, la griffe del maglione firmato dell'altro, è cieco al tuo amico, ne ignora e nega la presenza.

Cos'è il tuo stile di vita? L'insieme delle tue abitudini quotidiane, il tuo modo di abitare casa tua e di ospitarvi gli amici, il tuo modo di parlare, le cose che ami fare ... il tuo modo di illuminare le giornate con la bellezza. È importante tutto questo, è un tesoro di cui puoi godere tu e donare a quanti ti circondano.

Il tuo stile di vita è importante perché è il tuo! Dell’essere tu, di te lettore, che stai leggendo queste righe, ce n’è proprio solo uno al mondo. Non dimenticarlo.

Giorgio Moschetti e Andrea Montagnini