E poi che la sua mano a la mia puose, con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose |
Care
amiche e cari amici,
abbiamo anteposto al simbolo di Cura e
Cultura la bandiera dell’Europa. Le elezioni presidenziali francesi – che
emozione, la lunga camminata di Emmanuel Macron al suono dell’Inno alla
gioia – quelle olandesi e prima ancora quelle presidenziali austriache sono
state tutte segnali incoraggianti di un cambio di vento e di futuro per la
nostra Europa. Queste settimane invece, dovrei dire questi giorni dal momento
che gli attentati stanno diventando quasi quotidiani, sono scandite da orrori a
ripetizione.
Qualcuno ha scritto che l’Europa, in
quelli che mi viene da chiamare dolori del parto, sta dando un bell’esempio di
resilienza, di capacità di resistere a traumi ripetuti senza perdere sé stessa,
anzi diventando ancor più sé stessa, come luogo al mondo nel quale è più bello
vivere e crescere come esseri umani, perché l’umano vi è rispettato. La prova è
dura, lunga e dura: l’odio è contagioso e chi ci uccide vuole soprattutto che
noi diventiamo come lui, che gli rispondiamo con lo stesso odio. E questo è proprio
il pericolo peggiore che l’Europa deve sventare. Perché Europa, se vuole essere
sé stessa, deve con Yeats saper cantare più forte ad ogni strappo della sua
veste mortale, deve saper rispondere all’odio con il canto e con la gioia,
deve saper celebrare l’umano, saper vincere sull’odio con rispetto e con amore
per l’umano.
Vedo esempi di resilienza:
-) nella lettera che Antoine Leiris
scrisse ai terroristi cinque giorni dopo la strage del Bataclan. So che ve l’ho
già inviata, ma non perdiamo occasione per rileggerla:
‹‹Venerdì sera avete rubato la vita di
un essere eccezionale, l'amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure
non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio saperlo. Voi siete anime
morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatto a sua
immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo
cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa
ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi
paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la
mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.
L'ho
vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d'attesa. Era bella come
quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di
lei più di dodici anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo
questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i
nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale
voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più
forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo
andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda
come ogni giorno, e poi giocheremo come ogni giorno, e per tutta la sua vita
questo bambino vi farà l'affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non
avrete mai nemmeno il suo odio››.
-) nelle parole con le quali il
poliziotto Etienne Cardiles commemora il suo collega e compagno Xavier Jugelé
ucciso nell’attentato ai Champs-Elysées a Parigi il 20 aprile scorso‹‹Quest’odio non ti somiglia, resterai nel
mio cuore per sempre. Ti amo››
-) nelle case di quanti, dal Bataclan, a
Nizza … a Manchester, a Londra, nei momenti dell’orrore le aprirono, le loro
case – erano gente comune – per accogliere i passanti in pericolo, sconosciuti
ma non più estranei.
Di fronte alle ferite dell’orrore, il tessuto
sociale ferito si rinserra solidale. A chi mi chiede aiuto per sopportare tanto
orrore, a chi mi chiede che senso abbia tutto ciò, rispondo che questo orrore
ha il senso che noi riusciamo a dargli. E che senso possiamo dargli? Non basta
dire che dobbiamo continuare la nostra vita di prima senza lasciarci impaurire
e senza permettere al terrore di cambiare le nostre abitudini. Non basta,
perché è giusto ma insufficiente. Invece qualcosa deve cambiare, simili orrori
non possono lasciare le cose come stanno. Noi dobbiamo rispondere vivendo molto
più sul serio e con maggiore profondità e pienezza rispetto a prima, credendo
assai di più e assai più sul serio nei nostri valori, lo dobbiamo per onorare
quanti sono caduti. Dobbiamo onorarli con il nostro vivere, non dobbiamo più
vivere soltanto la nostra vita, ma anche la loro che è stata così orribilmente
tolta. Sta a noi rispondere a questo odio per la vita con la gioia della vita,
amandola più che mai, la vita, vivendola ancora più pienamente e consapevolmente.
Per loro, che sono caduti. E se questo faremo, non sarà stata vana la loro
morte.
Poi, lasciateci nel nostro piccolo,
cantare nonostante l’orrore, cantare
più forte ad ogni strappo della nostra veste mortale, con un piccolo tour
nel tempo e nello spazio: Urbino nel 1507, Mantova nel 1607, Londra pochi anni
prima.
Ecco una delle cinquanta Stanze di
Pietro Bembo, nate nel 1507, dettate – come scrive il poeta stesso – in brevissimo spatio fra danze et
conviti, ne’ romori et discorrimenti della corte di Urbino, in cui
il trentaseienne Pietro era giunto da Venezia. (dalla
Domenica de ilSole24ore, 7 maggio 2017)
Amor è gratïosa et dolce voglia,
che i più selvaggi et più feroci affrena;
Amor d’ogni viltà l’anime spoglia
et le scorge a diletto e trahe di pena;
Amor le cose humili ir alto invoglia,
le brevi et fosche eterna e rasserena;
Amor è seme d’ogni ben fecondo,
et quel ch’informa et regge et serva il mondo.
Proprio
100 anni dopo, il 24 febbraio 1607, la Musica si presenta agli
spettatori nel Palazzo Ducale di Mantova, durante la prima
esecuzione de L’Orfeo, favola in musica di Claudio Monteverdi su
libretto di Alessandro Striggio:
Io la Musica son, ch’ai dolci accenti
so far tranquillo ogni turbato core,
ed or di nobil ira ed or d’amore
poss’infiammar le più gelate menti.
E
così Orsino, duca di Illiria, apre la prima scena de La dodicesima notte, scritta
da William Shakespeare pochi anni prima:
Oh, la musica, sì!
S’è vero ch’essa è cibo dell’amore,
somministratemene ancora tanto,
che la mia fame alfine d’esso sazia,
possa ammalarsene, fino morire!
Di nuovo quella melodia! Ancora!
Aveva una sì languida cadenza,
che mi sentivo come carezzare l’orecchio da un soave venticello
che alitando su un prato di violette
ne rubi e ne diffonda la fragranza…
E
concludiamo con una grande voce dei nostri tempi sciagurati: il 26 aprile 2017
Renzo Piano ha inaugurato il Lenfest Center for the Arts, la scuola
d’arte della Columbia University, il secondo edificio del nuovo campus su
Broadway e la 125” Street a Harlem, periferia nord di Manhattan. Il primo
edificio, già in funzione, è il laboratorio di neuroscienze “Mind, Brain and
Behavior”. Alla sera del 26 aprile c’è stata una grande festa per gli studenti
e i loro professori. Renzo Piano al mattino ha chiuso il discorso di
inaugurazione con queste parole:
“Stasera con i ragazzi parlerò di
bellezza. Perché la bellezza non è solo quella dell’arte consolidata: è
emozione, ricerca, conoscenza, scoperta.
E
poi perché la bellezza è anche un gesto politico.
Dà
forza ai desideri ed è una delle poche emozioni umane capaci di competere con
quelle, ben più pericolose, del denaro, del potere e della
conquista.” (dalla
Domenica de ilSole24ore, 30 aprile 2017)
Un caro saluto a tutte e a tutti, Giorgio Moschetti