mercoledì 24 febbraio 2016

CAMMINARE



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Inoltrarsi nell’alba del nuovo 

La pioggia è caduta violenta con forti raffiche di vento per tutta la notte.

Alle 8 della mattina imperterrita voglio comunque raggiungere la spiaggia: la lunga e ampia cala è deserta; la sabbia finissima, diventata grigiolina, è compatta e intrisa d’acqua; non si affonda, si cammina sicuri anche con i sandali ai piedi. Raggiungo il margine di terra più vicino al mare e, senza farmi lambire, inizio a camminare con passo regolare.

Non c’è nessuno. Tutto intorno a me è silenzio e paesaggio impregnato d’acqua: la staccionata sulle dune, la vicina macchia mediterranea rigogliosa e folta, i contorti e nodosi pini marittimi.

Sulla spiaggia estesa e vuota fino alle dune che la separano dal liscio specchio d’acqua nell’interno – preziosa oasi naturale per molte specie viventi - si possono seguire le tracce lasciate dalle onde nella notte attraverso i depositi di alghe brunastre: linee ondulate, ora seghettate, ora sinuose, ora esili, ora profonde. Anche molte cicche, qualche sacchetto di nylon, qualche lattina, e alcune bottiglie di plastica che il mare ci ha restituito: segni di presenza umana dei giorni e delle settimane passate.

Ora il mare è piatto, di colore grigio antracite sotto un cielo ancora imbronciato e nuvoloso: deboli onde pacate portano a riva schegge di conchiglie bianchissime che rotolano affidandosi al moto lento e regolare dell’acqua. Questa stessa acqua sembra accarezzare le carcasse divelte di ombrelloni blu trascinati lontano dal luogo in cui forse erano stati chiusi accuratamente al termine di una giornata di sole. Ora sono sparsi e abbandonati in balia delle onde, relitti rotolanti; le tele strappate dai sostegni di metallo sono abbandonate fradice sulla spiaggia. Distrutto il lavoro di chi li ha progettati e costruiti e di chi li ha disposti in ordine sulla sabbia per offrire riparo al calore eccessivo durante il giorno passato.

Non mi trattengo, sfilo i sandali e scendo a camminare là dove l’acqua fredda lambisce ora i miei talloni, ora le mie caviglie. Cammino, ma i miei occhi osservano: oggi l’acqua presenta colori inconsueti. A riva è trasparente, chiara e senza schiuma; appena più in là è di un colore indefinibile, tra l’azzurro tenue, il grigio pallido e un morbido e delicato verde smeraldo. Alzo gli occhi: il cielo è ancora tormentato da nubi irregolari. Continuo a camminare con lo stesso ritmo e continuo a considerare con cura ciò che mi circonda.

Un raggio di sole improvvisamente spacca la nube e illumina un angolo di mare: subito si formano tremule scaglie luminescenti e cangianti ai cui bordi si affacciano tutti i colori dell’arcobaleno. Non posso non tendere l’orecchio e prestare attenzione anche allo sciacquio regolare.

E continuo a camminare.

Bisogna volerlo fare: bisogna voler camminare, muoversi nello spazio e nel tempo, percorrere luoghi noti e consueti e affrontare sentieri sconosciuti. Osservare, fermare l’occhio e il pensiero su ciò che sta intorno a noi: porre lì l’attenzione balzando fuori da noi stessi e ridimensionando così l’esclusiva, e a volte eccessiva, preoccupazione per il nostro io. Oggi il paesaggio – lo stesso che ho attraversato ieri e l’altro ieri – è diverso; un temporale con una pioggia violenta, questo evento esterno, l’ha trasformato facendo esplodere aspetti di distruzione e mostrandone la trasformazione. L’effetto straniante mi sorprende ed evidenzia cose diverse, oggi. Ma io le colgo perché mi dedico ad esso, perché raccolgo la mia attenzione e faccio convergere lì i miei pensieri. La pioggia di ieri ha tormentato il mare, ha distrutto, ha sconvolto la spiaggia ... sì, ma accanto all’ombrellone sfasciato, la cui storia appartiene già al ricordo, c’è anche il nuovo colore del mare, c’è il suo pacato movimento incessante che ambisce e accompagna il mio passo. C’è il mio tempo, quella mezz’ora che io dedico a ciò che mi sta intorno, in alto, in basso, sulla terra dove si deposita in quiete e riposa ciò che ha avuto vita e dove il mio piede lascia la sua impronta al contatto con la sabbia fredda e umida: è la traccia del mio passaggio, una semplice lieve modificazione, una labile parte della mia identità che resta soltanto per pochi istanti e poi si trasforma anch’essa.

Camminare significa lasciare il passato dopo averlo elaborato, liberarsi del suo peso, non aggrovigliarsi in esso e neppure rimuoverlo.

Camminare è andare incontro al nuovo, volerlo affrontare - il nuovo, il diverso, l’inaspettato.
Camminare non è necessariamente sinonimo di avanzare, procedere, migliorare, ma lasciarsi trasformare, sì.

Camminare può voler dire scegliere o essere costretti a muoversi con altri strumenti o posare il piede su superfici diverse: dunque avere contatti imprevisti e aprirsi a nuove percezioni. Significa accettare di inoltrarsi in nuove esperienze, esplorare nuovi ambienti, o riattraversare lo stesso paesaggio con modalità nuove, disponibili a rivolgere lo sguardo sulle cose con altri occhi o sfiorare il suolo lasciandosi attraversare da una percezione tattile diversa.

Camminare significa superare la paura che ci inchioda, ci pietrifica, raggela emozioni e sentimenti e ci imprigiona nei confini dell’io.

Camminare è proiettarci verso l’oltre, aprirci al futuro, allo stupore di nuovi orizzonti, pronti ad accogliere sorprese e non soltanto a desiderarle. È abbandonare l’arrovellarsi e il ripiegarsi non per sfuggire a noi stessi ma per collocarci nella giusta dimensione rispetto alle cose e al mondo. Il cammino ci allontana da noi stessi, ci consente di percepire le molteplici forme dell’esistenza, nutre il pensiero e lo stimola.

Camminare è lasciarci cambiare nella mente: alzarci in piedi, consegnare alla notte la bufera del temporale, metterci in moto, attraversare la spiaggia ai confini fra terra e mare, fra acqua e cielo confidando sulla stabilità che i nostri piedi – ora l’uno, ora l’altro – ci garantiscono nel passo: sono alternativamente una base sicura su cui poter contare almeno per un istante.

Camminare significa non aspettare inerti che qualcosa succeda sprofondando nel terrore del nuovo.

Camminare però non esprime la frenesia del fare, del vagare sempre altrove con il pensiero; non è l’ansia di movimento, l’affanno della corsa, ma il passo sicuro e cadenzato da cui riusciamo a trarre piacere. È soddisfare un bisogno di rallentamento e di pacatezza. È trarre energia da ciò che si osserva, si assapora, si coglie: in questo modo anche si allarga la strada dentro di sé. Bisogna lasciarsi “invadere” dalle cose: qualcosa di “ordinario” potrà diventare “straordinario”.

Camminare è un continuo divenire, è l’accettazione del cambiamento, è la capacità di assumere il nuovo che viene e di incorporare il futuro, di tracciare nuovi sentieri per creare sorprese. 

Un cammino accende mappe della ragione ed evanescenze imprevedibili affidate alle emozioni. (Duccio Demetrio)

Nadia Burzio



mercoledì 10 febbraio 2016

IN VIAGGIO



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Quando partirai, diretto a Itaca, 
che il tuo viaggio sia lungo
ricco di avventure e di conoscenza.
...
Non aspettarti che Itaca ti dia altre ricchezze.
Itaca ti ha già dato un bel viaggio;
senza Itaca, tu non saresti mai partito.
Essa ti ha già dato tutto, e null’altro può darti”.



Quante volte ci è capitato di vagheggiare un viaggio in qualche località che ci pareva irraggiungibile e quanto ci siamo impegnati per progettare e organizzare tutto al meglio? Quanta fatica ed energia abbiamo messo nel nostro progetto, nel sogno della nostra vita! Pian piano l’idea prendeva corpo nella nostra mente e nella nostra immaginazione, ogni volta arricchita di particolari e dettagli che ne rendevano sempre più desiderabile la sua realizzazione, fino al giorno tanto atteso: finalmente si parte!
Il viaggio che ci ha condotto a destinazione ci ha sfiniti, gli imprevisti durante il tragitto sono stati numerosi, spesso mal tollerati e vissuti con impazienza ma, una volta giunti sul posto, abbiamo potuto godere della nostra personale conquista, oppure siamo rimasti delusi e le aspettative non hanno trovato un riscontro effettivo nella realtà. Ne è valsa davvero la pena, potremmo domandarci?

La simbologia del viaggio ci accompagna costantemente durante la vita, in maniera neanche troppo metaforica, e sul biglietto che ci viene consegnato alla partenza non vi è nemmeno scritta la destinazione – completamente a nostro carico – cosa che possiamo vivere come un limite oppure come un’opportunità. Certo è difficile in un momento storico come il nostro – in cui domina la precarietà nel senso più generale ed esteso ai più svariati ambiti della vita – pensare che davanti a noi ci siano opportunità da cogliere.

Siamo spesso tentati di considerare degli ostacoli, che scavalchiamo frettolosamente tirando un sospiro di sollievo al loro superamento, le esperienze che affrontiamo durante l’impegnativo percorso, protesi come siamo verso la meta, alla dirittura d’arrivo, al momento in cui taglieremo il traguardo e quando ci renderemo conto di doverci nuovamente posizionare al via per una nuova partenza.

Pensavamo finalmente di potercene stare un po’ tranquilli a godere della nostra conquista, ad assaporare quanto abbiamo fortemente voluto: questo nella migliore delle ipotesi.

E quando invece le nostre fatiche sembrano essere state spese invano? Dico sembrano perché, a pensarci bene, potrebbe anche non essere così, ma solo a patto che non confondiamo il mezzo con il fine.

Credo che in molti abbiano sperimentato la sensazione di vuoto che segue ad un progetto studiato nei minimi dettagli – per il quale abbiamo speso energie emotive, mentali, fisiche – e che al momento della realizzazione sfuma dinanzi a noi o va incontro ad un fallimento: “Non è giusto, avevo messo il massimo impegno e questo è il risultato!

La prossima volta non mi metterò più in gioco fino a questo punto, perché non serve assolutamente a nulla.”

E’ il rischio di ogni partenza e forse è per questo che alcuni non partono mai e poiché non partono non arrivano da nessuna parte.
Dunque il fine per il quale abbiamo lavorato duramente è il raggiungimento della mèta?
Pensiamo alla fatica di quanti vogliono raggiungere la vetta di una montagna: sicuramente i duri allenamenti che precedono l’impresa, gli sforzi e i rischi connessi con quest’ultima non possono essere considerati un semplice mezzo asservito ad un fine, vale a dire la cima tanto agognata.

Il coinvolgimento fisico ed emotivo ha dato origine ad una trasformazione in colui che si è adoperato in modo tanto appassionato e la vetta della montagna è solo l’apice di questa impresa, iniziata in realtà molto tempo prima.

Quando si presenta un progetto, in esso si è soliti indicare le finalità e gli obiettivi che si intendono perseguire, i quali sono dunque già presenti e che hanno già dato origine ad un cambiamento profondo che ci apprestiamo a condividere e ad esplicitare, rendendo pubbliche le nostre intenzioni.

Il progetto è esso stesso il fine, perché frutto di un percorso che abbiamo seguito con passione e convinzione, nel tempo, un tempo a volte lungo e interminabile.

Come non pensare ad una “partenza” senza parlare di tempo, in un’epoca in cui efficienza e ottimizzazione delle tempistiche trovano un posto di rilievo? La vita è breve e dunque intendiamo sfruttare ogni attimo a disposizione, anche a costo di vivere in maniera concitata, talora anestetizzata. Gli antichi greci avevano due modi per indicare il tempo: chronos era il tempo misurabile, che trascorre inesorabile, mentre kairòs era il tempo giusto, opportuno relativamente al quale nessuna fatica è resa inutile.

Allora mettiamoci comodi, assaporiamo con la mente e il cuore i paesaggi che incontriamo durante il tragitto, non attendiamo con ansia l’arrivo, perché un approdo in ogni caso ci sarà. E’ il modo in cui avremo affrontato il percorso a fare la differenza e ...

Se infine troverai che Itaca è povera, 
non pensare che ti abbia ingannato.
Perché sei divenuto saggio, hai vissuto una vita intensa,
e questo è il significato di Itaca”.

K. Kavafis [1863-1933], Itaca 

Buon viaggio!

Monica Ramazzina

sabato 6 febbraio 2016

Aggiornamenti da Cura e Cultura - febbraio 2016



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Care amiche e cari amici, 
vorrei che questi aggiornamenti non si limitassero soltanto a dare notizia degli eventi organizzati da Cura e Cultura, ma dessero anche notizia delle tappe del percorso di pensiero che, faticosamente, Cura e Cultura sviluppa nei suoi incontri settimanali, per­corso di cui gli eventi, i Seminari e i concerti di Dolce Mente sono poi espressione. Scrivo faticosamente perché le condizioni di lavoro di Cura e Cultura, agli inizi del suo undicesimo anno di vita – sì, perché con il finire del 2015 Cura e Cultura ha compiuto dieci anni di vita, auguri!!! – sono sempre più difficili e improbabili. Non parlo del punto di vista economico che, grazie alla generosità di alcuni nostri amici, ha visto concludersi il 2015 con la cassa un po’ più piena del solito, sempre relativamente alla nostra modesta misura. Ma parlo delle condizioni oggettive di lavoro del Gruppo Operativo, con il quale sembra quasi che la vita giochi un po’ malignamente a fare il possibile per scoraggiarlo e farlo desistere. Ma naturalmente non ci riuscirà: se Cura e Cultura fosse il titolo di un libro, e con quello che vi abbiamo pubblicato finora potrebbe proprio esserlo, il suo sottotitolo sarebbe opportunamente Nonostante tutto … Continuo a sperare di riuscire a inviarvi gli aggiornamenti con una frequenza un po’ maggiore della attuale quadrimestrale, nel ricordo di quando un tempo era quasi mensile.
Perdonatemi la lamentazione: a proposito del percorso di pensiero di Cura e Cultura, mi fa piacere inviarvi oggi tre passi che mi hanno recentemente molto colpito. Il primo è tratto dalla tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, in particolare dal primo volume Le storie di Giacobbe, scritto fra il 1926 e il 1930. Si riferisce a Giacobbe, poco prima che sia depredato e umiliato da Elifaz, il figlio di Esaù:  

Quell’anima, infatti, era debole e paurosa: aborriva dal commettere violenza, tremava al pensiero di subirla, ed era piena di ricordi avvilenti e umilianti per un orgoglio virile; essi però non diminuivano né la sua dignità né la sua solennità, perché sempre, regolarmente, in tali situazioni di umiliazione fisica, un raggio, un’effusione spirituale, una rivelazione della grazia, potentemente consolatrice, la investiva confermandola ancora una volta, e in virtù di questa rivelazione, poiché se l’era creata e conquistata da sé, traendola dalle profondità non umiliate del suo essere, quell’anima poteva, con pieno diritto, elevare il capo.  

Il secondo passo proviene dal Diario di Etty Hillesum. Le parole del grande tedesco, cui venne assegnato il premio Nobel nel 1929, proprio durante la stesura di Le storie di Giacobbe, mi hanno ricordato questa giovane donna ebrea di 28 anni, che così scrive nel suo diario, a mezzanotte e mezza della notte fra sabato e domenica 21 giugno 1942: 

Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare.

Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. 

Circa un mese dopo questa annotazione, Etty decise di sua spontanea volontà di andare a Westerbork con gli ebrei prigionieri. Westerbork era un campo di smistamento nella zona orientale dei Paesi Bassi. Non era un campo di sterminio, ma di fatto era l’ultima tappa prima di Auschwitz. Sappiamo che Etty rimase a Westerbork fino al 7 settembre 1943, quando, con il padre, la madre e uno dei suoi fratelli, Mischa, furono caricati sul treno dei deportati. Da un finestrino di quel treno gettò una cartolina che fu raccolta e spedita dai contadini: “Abbiamo lasciato il campo cantando”. Un rapporto della Croce Rossa afferma che Etty morì ad Auschwitz il 30 novembre 1943. 
Consentitemi ancora di accostare queste due citazioni a quello che mi sembra il senso più profondo di tutta l’opera di Ludwig van Beethoven. Come emblematico corrispet­tivo musicale di questi passi, vi suggerisco il terzo movimento della Sonata in la bemolle maggiore op. 110: Adagio ma non troppo – Fuga. Allegro, ma non troppo. Questa musica dimostra in modo lampante che il significato della musica non tanto chiede di essere decifrato, come comunemente si pensa, ma chiede, o forse implora, di essere vissuto.
La terza riflessione, che mi pare costituisca un passo ulteriore di approfondimento delle due precedenti di Thomas Mann e di Etty Hillesum, proviene questa volta da Tipi psicologici, l’opera di Carl Gustav Jung del 1921: 

Quando noi urtiamo contro un ostacolo, qualunque esso sia purché particolarmente duro, il contrasto fra la nostra intenzione e l’oggetto che si oppone diventa ben presto un conflitto interiore. Infatti, mentre io mi sforzo di subordinare alla mia volontà l’oggetto che mi si oppone, tutto il mio essere si mette a poco a poco in rapporto con esso, in corrispondenza appunto della forte carica libidica che attrae, per così dire, una parte del mio essere nell’oggetto. Ne risulta un’identificazione parziale di determinati elementi affini della mia personalità con l’essenza dell’oggetto. Appena attuata questa identificazione il conflitto si trasferisce nella mia propria anima. Questa “introiezione” del conflitto con l’oggetto mi rende discorde con me stesso, cagiona così un’impotenza nei confronti dell’oggetto e suscita così perturbazioni affettive che sono sempre sintomo di un dissidio interiore. Le perturbazioni affettive però fanno sì che io percepisca me stesso e che sia messo perciò in grado – a meno che non sia cieco – di rivolgere la mia attenzione su di me e di seguire in me il gioco delle forze in contrasto.

E ora gli aggiornamenti sugli ultimi eventi di Cura e Cultura:

1)    24 ottobre 2015: recita di Falstaff di Giuseppe Verdi al Teatro alla Scala di Milano. Molto bella, ottima la direzione di Daniele Gatti, ottimi tutti i cantanti, fra i quali è spiccato un potente ed espressivo Nicola Alaimo nella parte di Falstaff.

2)    28 novembre 2015: concerto di Notabene e Dolce Mente al Teatro comunale di san Giorgio Canavese, con l’organizzazione di Casa Bordino (www.casabordino.org). È stato un bellissimo pomeriggio, ottimi gli strumentisti di Notabene, Elisa Antonova al violoncello, Vincenzo Cristiani al pianoforte, Anna Lisa Signori al violino, come le due giovani e assai promettenti soprano Valeria Gruppi e Valeria Laino. Poi, noi di Dolce Mente che, ci pare, abbiamo fatto degnamente la nostra parte, con la felice collaborazione di Nota­bene in due brani di Mozart. 

3)    Mi fa piacere segnalarvi Il Viaggio di inverno di Schubert, anatomia di un’ossessione, di Ian Bostridge, edito nel 2015 da Il Saggiatore, Milano. Ci sarebbe molto, moltissimo da dire sul Winterreise (appunto, Viaggio di inverno), ciclo di ventiquattro lieder su testo di Wilhelm Müller, quasi testamento di Franz Schubert, composto un anno prima della sua precoce morte nel 1828. Ma su questo moltissimo da dire lasciamo pure la parola a Ian Bostridge e al suo magnifico libro, nel quale l’autore amplifica immaginativamente (proprio nel senso junghiano di amplificazione) uno per uno tutti i lieder del ciclo, elaborando e sviluppando per ciascuno di essi un amplissimo contesto culturale che permette a ogni lied di regalarci tutti i suoi più profondi significati. E ci permette di apprezzarne la straordinaria attualità: per dirne solo una, mostrandoci come Schubert anticipi addirittura Samuel Beckett. Oltre che, naturalmente, ricordo io, Gustav Mahler e Dimitri Shostakovic, per fare solo altri due nomi! Un libro straordinario. E moltissimo da dire ci sarebbe anche su questo splendido tenore inglese, Ian Bostridge, dal profilo culturale eccezionalmente alto e dalla pari capacità di cogliere le minime sfumature del testo di Wilhelm Müller. Per chi voglia conoscere di più su Bostridge, ecco il link della Società del quartetto: http://www.quartettomilano.it/it/02322/200/ian-bostridge.html

4)    Vi segnalo ancora l’assidua e valorosa attività della associazione Erreics Onlus di Torino, con la quale abbiamo rapporti di reciproca simpatia e vicinanza. Erreics Onlus (www.erreics.org)  ha indetto per il 2016 la V edizione del Premio Culturale Luigina Parodi, il tema è "l'amore ". Il concorso è iniziato il 7 gennaio e terminerà il 29 ottobre, potranno partecipare gratuitamente i ragazzi di età compresa fra i 14 ed i 20 anni, ed una sezione del premio è dedicata ai ragazzi affetti da autismo e sindromi correlate. Vi chiediamo di contribuire alla diffu­sione e alla notorietà delle iniziative di Erreics Onlus, così vicina nelle sue linee guida essenziali a Cura e Cultura. 

5)    Infine, sul nostro sito www.curaecultura.com, trovate pubblicato un altro frammento della mia Risposta a Dante, relativo alla quarta e alla quinta terzina del secondo canto dell’Inferno.  


Un caro saluto a tutte le nostre amiche e a tutti i nostri amici. 

Giorgio Moschetti