mercoledì 21 settembre 2016

SEMINARI CURA E CULTURA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Come sapete, Cura e Cultura si fa ponte fra la bellezza della grande musica e chi, soffrendo profondamente il male di vivere, più di ogni altro ha disperato bisogno di amore e bellezza. Per cinque anni ci siamo rivolti alla fruizione di quel grande catalogo dell’animo umano che è l’opera. Una convenzione con il Teatro alla Scala di Milano ci ha consentito di offrire gratuitamente ogni anno, ai nostri amici in sofferenza, uno o due spettacoli, la maggior parte dei quali preparati dei nostri seminari introduttivi.
 
Ogni opera nasce da una storia, condensata in un libretto. La musica è al servizio della parola, ne libera tutti i significati amplificandone la musicalità latente, ne combina il ritmo interno con la particolare espressività dei vari intervalli della scala, sagomando così la parola nelle due dimensioni del tempo e delle altezze. Impensabile l’opera senza musica, ma la parola sta sempre al centro.
 
Ora ci proponiamo di avvicinare la musica da sola, non più a corredo di un dramma. Riprenderemo l’anno prossimo la nostra esplorazione del panorama operistico. In questo autunno invece nostro obiettivo sarà la musica, soltanto la musica. La parola nei Seminari ci aiuterà a prepararci per accoglierla in modo che possa esplicare tutto il suo benefico potere. Ci farà da guida l’ultima sinfonia di Gustav Mahler, la sua Nona in re maggiore, scritta nel 1909, nell’indimenticabile registrazione dell’agosto 2010, con Claudio Abbado alla direzione dell’Orchestra del Festival di Lucerna.
 
Ci introdurranno all’ultima sinfonia di Gustav Mahler tre Seminari, nelle seguenti date:
 
23 ottobre 2016: 1° Seminario, il primo movimento della Sinfonia n. 9 di Gustav Mahler. Ore 14 – 17,    
 
6 novembre 2016: 2° Seminario, il secondo e il terzo movimento della Sinfonia n. 9 di Gustav Mahler. Ore 14 – 17,
 
4 dicembre 2016: 3° Seminario, il quarto movimento della Sinfonia n. 9 di Gustav Mahler e ascolto integrale della sinfonia. Ore 14 – 18.
 
I tre Seminari si svolgeranno tutti, per la gentile disponibilità della famiglia Iorio, a Casa Iorio, corso Vercelli 258, Ivrea.  
 
Costo dei tre Seminari: euro 70,00 iva inclusa. 
Quota di iscrizione a Cura e Cultura per l’anno 2016: euro 50.
 
Per ulteriori informazioni potete contattare il numero 0125/76680.
 
Un caro saluto a voi tutti. 

Giorgio Moschetti

lunedì 22 agosto 2016

RIFLESSIONI SU TEMPI DOLOROSI




E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
 







 23 giugno: Brexit.
Un brutto colpo:
per chi, giovanissimo e con incredula coscienza degli orrori della seconda guerra mondiale, ricevette dalle parole di Altiero Spinelli il sogno di un’Europa unita e in pace;
per chi, nel 1985, vide adottare dai capi di Stato e di governo dei paesi membri come inno ufficiale dell'Unione Europea l’Inno alla gioia, dal quarto movimento della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven;
per chi, con incredula ma questa volta gioiosa coscienza, nel novembre 1989 vide cadere il muro di Berlino e un anno dopo vide la riunificazione della Germania;
per chi, poco dopo, vide cadere le frontiere con l’attuazione del trattato di Schengen e la libera circolazione fra gli Stati Europei;
per chi, nel 2002, vide con gioia l’introduzione nella vita quotidiana della moneta comune, l’euro.

14 luglio: Nizza.
Orrore. Con l’Isis vediamo con orrore (lo so, è una ripetizione, ma non trovo altra parola …) ripresentarsi qualcosa che, illusi, speravamo di esserci lasciati alle spalle con la fine dei totalitarismi del Novecento.

22 Luglio: Monaco.
Ancora orrore.

Ma prima il 13 novembre scorso a Parigi, e poi il 23 marzo scorso a Bruxelles, e poi altri piccoli (!) attentati, quasi quotidiani, gesti di emulazione o forse no.
  
Il 23 luglio di prima mattina ci stavamo recando, con la piccola Adele di 3 anni, a Pombia, per una lieta giornata con lei a scoprire gli animali. Guidando sull’autostrada io tacevo pensando con angoscia ai fatti di Monaco della sera prima, dei quali non si avevano ancora notizie precise, se non che tre persone, allora sembravano ancora tre, in un’altra sparatoria avevano ucciso diversi ragazzi. Ci fermammo in un autogrill per una piccola colazione ed entrando in questo non luogo mi accorsi con sorpresa che, diversamente da quanto mi era sempre capitato in precedenza entrando in un non luogo, non mi sentivo affatto in mezzo a estranei: quanti mi circondavano non mi erano più estranei, non lo erano più, mi sembrava di stare in un grande noi, mi sembrava di sentirmi e forse di essere più gentile e quasi più sorridente e accogliente verso chiunque. Non so quanto di tutto ciò sia trapelato nel mio comportamento, forse ben poco o forse nulla. Tuttavia quel vissuto di un grande noi, l’attenuarsi almeno per un istante della malattia dei nostri tempi, quell’individualismo sfrenato che trasforma l’altro in un estraneo, mi fece bene, attenuò un poco l’angoscia per i fatti del giorno prima e mi rese più serena la giornata. 

Francesco si chiedeva angosciato alcune settimane fa: cosa ti è successo Europa? Lasciatemi aggiungere: Svegliati, Europa, svegliati, ricordati chi sei, prima che sia troppo tardi.

Eppure una risposta a quanto ci succede, c’è. Vi riporto integralmente il Buongiorno di Massimo Gramellini su La Stampa del 17 novembre scorso:

Se ciò che chiamiamo Occidente ha un senso, questo senso palpita nelle parole con cui Antoine Leiris si è rivolto su Facebook ai terroristi che al Bataclan hanno ucciso sua moglie.
‹‹Venerdì sera avete rubato la vita di un essere eccezionale, l'amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatto a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.
L'ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d'attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di dodici anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno, e poi giocheremo come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo bambino vi farà l'affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio››.

Infine, per chiudere questa riflessione sofferta e meditata, vi propongo ancora queste considerazioni di Thomas Mann, tratte da Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, una magnifica Incompiuta del grande tedesco che vi lavorò a più riprese per tutta la vita, riuscendo come raramente altrove a coniugare delicatamente lievità e umorismo con profondità e sapienza umana.   

Se si guarda l’amore con occhi nuovi, come fosse per la prima volta, quale cosa stupefacente e commovente ci si offre! Esso è né più né meno di un miracolo! Tutta l’esistenza, in fondo, presa nel suo complesso, è un miracolo, ma l’amore a mio giudizio è il più grande … la natura ha diviso e differenziato con cura un essere dall’altro … ma nell’amore la natura fa un’eccezione – molto strana se la si contempla con occhi nuovi … l’uomo vive isolato nella sua pelle, staccato dagli altri … vuole essere così distinto come è, vuole star solo ed in sostanza non vuol saperne degli altri. L’altro, ogni altro entro la sua pelle, gli è in sostanza ripugnante, e non ripugnante gli riesce in ultima analisi unicamente la sua stessa persona … La vicinanza fisica dell’altro, se troppo invadente, gli è insopportabile … [ma] interviene una cosa con cui la natura devia da quella sua situazione fondamentale … In che consiste questa deviazione della natura da sé stessa? Che cosa annulla, con grande stupore dell’universo, la distinzione fra una corporeità e l’altra, fra l’Io e il Tu? È l’amore. Una cosa di tutti i giorni, ma eternamente nuova e, veduta da vicino, né più né meno che inaudita …[nell’innamoramento] il bacio è l’inizio di tutto quanto segue, perché è la muta e stupefacente proclamazione che la vicinanza, massima vicinanza, illimitata vicinanza, la stessa vicinanza prima molesta sino a soffocarci, è divenuta invece sintesi di ogni desiderio. L’amore … attraverso agli amanti fa di tutto, tenta i mezzi estremi per rendere la vicinanza illimitata e perfetta, per portarla sino alla reale e totale unificazione di due vite distinte – il che peraltro, triste e grottesca verità, non gli riesce mai, malgrado ogni sforzo. Non può superare sino a tal punto la natura che, pur avendo istituito l’amore, si attiene per principio alla scissione. Che due diventino uno non accade fra amanti, accade al più fuori di loro, in un terzo, nel figlio, frutto dei loro sforzi.
L’amore … non sta soltanto nell’innamoramento, nel quale cessa in modo stupefacente di riuscir sgradevole la distinzione corporea. L’amore pervade il mondo intero con delicate tracce ed allusioni della sua presenza. Quando lei all’angolo della strada non dà soltanto un paio di centesimi al sudicio piccolo mendicante che alza gli occhi verso di lei, ma gli passa una mano, anche non inguantata, sui capelli, benché probabilmente pieni di pidocchi, e intanto gli sorride, continuando poi il suo cammino più felice – che cos’è questo se non l’orma delicata dell’amore? … quel passar la mano nuda sulla testa pidocchiosa del monello, quel sentirsi più felice di prima è forse una manifestazione d’amore più straordinaria che la carezza ad un corpo amato ... Gli uomini si danno la mano – questa è cosa abituale, quotidiana, convenzionale, lo fanno senza pensarci … senza sentimento, senza ricordare che è stato l’amore a creare quest’abitudine; lo fanno, ma serbando i corpi a dovuta distanza – non troppo vicini, per carità! Ma al di là della distanza e del sorvegliato isolamento essi tendono le braccia e le mani estranee si ritrovano, s’intrecciano, si stringono … E tutto questo non è nulla, è cosa comunissima, non ha importanza, così si crede, così sembra. Ma in realtà, a guardar bene, questo entra nell’ambito del meraviglioso, è una piccola festa della deviazione della natura da sé stessa: è la rinuncia alla ripugnanza dell’estraneo per l’estraneo, è l’orma dell’amore segreto e onnipresente.


Giorgio Moschetti

mercoledì 13 luglio 2016

L’ALTRO SONO IO (La bellezza di un incontro autentico)



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Oggigiorno frequentiamo spesso luoghi nei quali gli individui si incrociano senza entrare in relazione, spinti dal desiderio di accelerare le operazioni quotidiane o di giungere più rapidamente altrove. E nel mondo attuale ci sono spazi in cui è particolarmente accentuato questo transito veloce senza incontri. L’antropologo Marc Augè (1992) ha coniato il neologismo “nonluogo” definendo con questo termine tutti quegli ambiti che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi, ad esempio, i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, gli aereoporti, le autostrade; se ci imbattiamo in persone di nostra conoscenza in uno degli spazi sopra menzionati, in genere ci limitiamo al saluto o ci soffermiamo poco perché abbiamo fretta. Aggiungiamo alla velocità che ci fagocita ogni giorno, figlia di questi tempi , anche la rabbia, il senso di impotenza verso tutto quello che stiamo vivendo nel nostro amato Paese, e di cui la maggior parte di noi non è responsabile, in particolar modo se il nostro dovere lo abbiamo sempre fatto, se le tasse le abbiamo sempre pagate, se le leggi le abbiamo sempre rispettate. Aggiungiamo tutto il disagio della eccessiva materialità che stiamo vivendo perché spesso si sono superati i limiti, allargati i confini, spinti dal consumo fine a sé stesso, spinti dalla moda, al “fanno tutti così”.... Ogni giorno ci imbattiamo in molte persone, ma solo se vogliamo incontrare veramente qualcuno, dobbiamo volerlo fare ed impegnarci a farlo, spesso dovendoci fermare, spesso dovendo scegliere il “Kaìros”, ovvero il “tempo giusto”, nel rispetto reciproco, nostro e dell’altro. Ma che significa “incontrare” le persone? Ci accorgiamo dell’altra persona e la incontriamo davvero se cogliamo l’occasione dell’incontro, raccogliamo la nostra attenzione e ci dedichiamo a quel momento di condivisione. Durante la nostra vita, nel nostro quotidiano si ha l’occasione di incontrare molte persone: l’incontro può diventare, per chi lo coglie e lo accoglie, un’opportunità di crescita, un’opportunità di conoscere e incontrare in modo autentico altre persone, e... di incontrare sé stessi. L’altro è sempre una grande opportunità di incontrare sé stessi. Esistono incontri superficiali che poco ricordiamo o che ci hanno lasciato tracce minime e incontri che invece sono stati per noi fondamentali e trasformativi, nella gioia o nella sofferenza. Nel dizionario etimologico della lingua italiana si legge che la parola incontro deriva dal latino in e contra, col significato principale di trovare davanti a sé qualcosa o qualcuno, per caso o deliberatamente. Andando più a fondo del concetto e aggiungendo così valore e significato, incontrare l’altra persona è molto di più: significa anche accoglierla, offrirle la propria disponibilità, considerarla, ascoltarla attentamente e attivamente, riconoscerne non solo la faccia visibile che ci presenta e che ci permette di individuarla, ma anche quella più nascosta.

Per raggiungere l’obiettivo dell’incontro vero bisogna rivolgere uno sguardo non superficiale, ma attento ed amorevole verso l’umano, uno sguardo che riesca a notare i particolari, a cogliere le piccole cose e gli impercettibili accenni rivelatori di assonanze e diversità rispetto a noi, essendo, sempre consapevoli che quell’incontro è sicuramente occasione per imparare, si può ricevere e si può donare. Per incontrare davvero gli altri in modo autentico bisogna prima incontrare sé stessi. Per realizzare questo fondamentale obiettivo è necessario volerlo: bisogna raccogliere la nostra attenzione su noi stessi e camminare con i nostri pensieri, percorrendo luoghi dell’anima noti e consueti e affrontando sentieri sconosciuti. La lettura di alcuni testi di vari autori, in primis Jung, Adler, Hillman, e il raffronto tra i loro scritti, mi hanno permesso in modo particolare di soffermarmi a riflettere sulla mia relazione con gli altri esseri umani, su come si attua il mio incontro con gli altri, su come mi pongo nei confronti degli altri, sul significato della mia vita, sul mio contributo lavorativo alla società umana. Penso che più dei libri mi abbiano arricchito le persone e l’incontro autentico con loro. Mi ha indotto molto a riflettere su questo tema il discusso film di Ermanno Olmi “Centochiodi”(2007), dove un giovane ma già affermato professore di filosofia dell’Università di Bologna compie un gesto indubbiamente esagerato ed esecrabile, inchiodando dei libri preziosi ad un pavimento in legno e poi inscenando la sua morte per potersi allontanare e riflettere sulla sua vita, su tutti i libri che ha studiato in solitudine e superbia: egli ritrova l’autenticità dell’esistere intrecciando rapporti di amicizia con gente semplice e meno istruita, mettendo a frutto ciò che ha imparato sui libri condividendolo con gli altri, e permettendo agli altri di insegnare a lui. L’incontro con l’altro, in quanto diverso da me, mi costringe a ricordarmi l’essenziale del vivere, l’essenziale del rapporto con le persone. Credo che il significato che attribuiamo all’incontro con l’altro e la partecipazione a cui dobbiamo cedere nell’incontro reciproco ci permette di conoscere il significato della bellezza, dell’amore e di ogni altro valore della vita. Nell’incontro autentico con l’altro, nella trasformazione a cui si sceglie di abbandonarsi in favore dell’altro, nella disposizione totale a essere presente e ad accogliere, è presente l’amore, in una delle tante forme in cui si manifesta. Guardandomi intorno, incontrando le persone, leggendo, continuo a rafforzare e confermare il mio pensiero: l’incontro autentico con altre persone è fondamentale non solo per il pratico vivere quotidiano, ma anche per poter compiere appieno l’opera della vita: solamente attraverso gli altri, infatti, possiamo conoscere noi stessi, porci domande, attribuire senso e significato ai fatti della nostra vita al fine di trasformarli in esperienza, accoglierli, metterli a frutto per noi stessi e per la società umana.


Elena Tosatti

mercoledì 15 giugno 2016

VIVERE IN UNA NUOVA PIENEZZA?



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Continuo a stare complessivamente bene, posso viaggiare, leggere libri, andare a concerti, mostre, conferenze e a teatro come e più di prima; dunque, non devo pensarci... Già, ma gli occhiali mi sono indispensabili per leggere e, ora, anche quando salgo in auto non posso guidare senza l’aiuto di lenti per la miopia; sono sicuramente meno agile in alcuni movimenti; quando mi alzo al mattino le ossa scricchiolano leggermente e mi sento un po’ rigida; non oso più salire disinvolta sulla piccola scala per le pulizie casalinghe ... dunque sto proprio invecchiando!

Come scrive Enzo Bianchi in “Ogni cosa alla sua stagione” invecchiare non è certo una novità: tanti sono invecchiati prima di noi e tanti invecchieranno in futuro, ma per ciascuno «la vecchiaia rappresenta un unicum, una novità inedita».

Certamente c’è una vecchiaia fisiologica che, peraltro, non sempre coincide con quella anagrafica: solitamente le si fa cominciare con l’approssimarsi degli ottanta anni, proprio in coincidenza con le aspettative di vita; c’è una vecchiaia burocratica – sessantacinque o sessantasette anni – quando si ha diritto ad una pensione; e c’è una vecchiaia psicologica o soggettiva come già aveva ben individuato e distinto Norberto Bobbio nel suo discorso tenuto all’università di Sassari il 5 maggio 1994 all’età di 85 anni, discorso poi pubblicato nel 1996 nel “De senectute”, testo ricco e un po’ malinconico.

Vorrei porre ora l’attenzione proprio sulla vecchiaia soggettiva, su questo stato d’animo e sulla consapevolezza di vivere tale passaggio di vita perché, mentre si può contrastare soltanto in parte l’invecchiamento biologico dato che di fronte alla degenerazione delle cellule e conseguentemente al pieno funzionamento di alcuni organi, ci dicono i medici, è un po’ impossibile intervenire, dalle crisi di vecchiaia psicologica, invece, forse ci si può riprendere. E non credo che per questo sia utile e necessario continuare l’attività professionale o politica fino agli ultimi giorni della propria esistenza in modo da sentirsi vivere: questa scelta serve, in verità, ad alimentare il dibattito sulla questione dei giovani contro i vecchi nella nostra classe dirigente italiana. Così pure mi pare illusorio cercare di fermare il tempo con una crema per le rughe, una tintura di capelli, una chirurgia estetica in modo da restare eternamente giovani come la diffusa pubblicità ci propone: queste sono tutte maschere che tentano di cancellare o nascondere il dinamismo e le trasformazioni della vita vera. Il volto di una persona anziana racconta la sua storia.

La partenza dei figli, la morte dei genitori e di amici coetanei, ma soprattutto il pensionamento segnano un passaggio netto e chiaro. Ha ragione Enzo Bianchi che colloca questo momento dopo i sessant’anni, «quando ci si trova più fragili, ci si stanca più facilmente e più in fretta, la vista si affievolisce e il corpo perde agilità. Inizia così un tempo in cui l’orizzonte finale non appare più così lontano e diventa arduo rimuoverlo dalla mente» (“Il pane di ieri”, p. 109). Dunque, andare in pensione, da una parte, è liberatorio, spesso è un traguardo atteso e desiderato per tanto tempo, dall’altra, però, può essere tragico perché si è posti inesorabilmente davanti al fatto che inizia per noi l’ultima fase della vita, sia essa di qualche anno o di alcuni decenni. La giovinezza è il partire, la vecchiaia è l’arrivare. Il tempo futuro aperto davanti a noi non ci appare come un percorso e un cammino da progettare: la vecchiaia è un tramonto, a «sessant’anni uno ha superato da un pezzo il solstizio d’estate.» (P. Delerm)

Che ne sarà allora dei nostri giorni? Si prospetta soltanto il tempo delle malattie e il momento del congedo definitivo? Che cosa ci sarà oltre la vita? Ci sarà un oltre? Ci sarà almeno «un giardino dei pensieri lontani», dove –come scrive Dacia Maraini nel libro “La grande festa” – «Forse sarà la voce della poesia a tenere in movimento le menti. E le parole penderanno dai rami come frutti. E si faranno canto mentre la lira di Orfeo riprenderà a suonare scendendo dal cielo stellato.»? Per la scrittrice questa è una quasi certezza, e per noi? Non ci resta che rassegnazione o cinismo o egoismo o solitudine? Non ci resta che adagiarci malinconicamente nei propri ricordi e consolarci con il proprio passato?

Anche forte delle mie ultime letture e conseguenti riflessioni, mi sento di affermare che si può cercare il cambiamento, anziché subirlo, patirlo o lasciarci da esso dominare. Oh, so bene che la vecchiaia può essere malattia e sofferenza, ma la sofferenza è connaturata con la vita in tutte le sue fasi. E quanto alla terza età in specifico, forse si può imparare ad invecchiare: ogni età hai suoi ritmi, le sue attività e i suoi doveri. Come ad ogni passaggio di vita dobbiamo affrontare la fatica di abbandonare il vecchio equilibrio per costruirne a poco a poco uno nuovo: si tratta di una svolta paragonabile ad una morte a cui, però, in questo caso, dobbiamo far seguire una rinascita, tramutare, cioè, una perdita in una bella occasione di crescita. Come già scriveva Elena Tosatti in “Accettazione e cambiamento”, testo pubblicato a marzo 2011 su questo stesso sito, dobbiamo «arrenderci alle cose come stanno per poi ripartire in modo diverso e nuovo». Dobbiamo acconsentire ai mutamenti, dedicarci con cura e passione al sentimento del tempo che passa, forse, abitando più intensamente con se stessi e sperimentando quanto ha affermato Adriana Zarri «Solo il viaggio dentro noi stessi ci restituisce al mondo innamorati della vita».

Al decadimento fisico non necessariamente deve corrispondere un decadimento della forza interiore: «le cose importanti (res magnae) non si fanno né con la forza né con l’agilità o con la celerità, ma con il senno, con il prestigio e con le idee: doti queste di cui la vecchiezza solitamente non soltanto non si impoverisce, addirittura si arricchisce». (Cicerone, “De senectute”, 17)

La dimensione della gratuità, dello stupore, della tenerezza, della generosità, della pazienza, della poesia possono conservare in noi la solarità, la speranza, la calma e il sorriso che ci consentono di guardare con occhi sempre nuovi anche alle cose consuete di tutti i giorni, ci invitano a godere degli affetti che il tempo non ha consumato, a gioire per la piacevolezza di un incontro, ad assaporare con gusto un cioccolatino o un caffè con gli amici, a ripensare con serenità al senso dell’esistenza continuando il proprio cammino.

Enzo Bianchi conclude il capitolo «Senesco» del suo libro “Ogni cosa alla sua stagione” con queste parole preziose che assegnano a ciascuno di noi una grande responsabilità nei confronti della terra e di tutti gli esseri viventi: 
«Quest’anno ho piantato un viale di tigli lungo la strada che conduce al mio eremo: mi son chiesto se riuscirò a godere della loro ombra e soprattutto delle ventate di profumo dei loro fiori nel mese di maggio. Ma li ho piantati per rendere più bella la terra che lascerò, li ho piantati perché altri si sentano inebriati dal loro profumo, come lo sono stato io da quelli degli alberi piantati da chi mi ha preceduto. La vita continua e sono gli uomini e le donne che si susseguono nelle generazioni, pur con tutti i loro errori, a dar senso alla terra a dar senso alle nostre vite, a renderle degne di essere vissute fino in fondo».

Nadia Burzio