mercoledì 16 dicembre 2015

DELLE COSE INUTILI CHE FANNO VIVERE



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
“Maestro, quello che stiamo facendo è una cosa inutile, lo sa?...  Proprio così, una di quelle cose inutili che fanno vivere!”
Ciò che stavamo facendo era cantare!

Questo articolo nasce dalla riflessione che spesso ci ritroviamo a vivere in una condizione di sonnambulismo, inermi di fronte a falsi bisogni imposti dall’esterno, dalla società. E i desideri più profondi, i desideri propri di ognuno di noi, desideri unici, senza che noi ce ne accorgiamo, lentamente scompaiono...
Rinunciamo spesso a vivere la vita nella sua pienezza. Riprendendo le parole di Roberta De Monticelli, rinunciamo a fare della nostra vita, una vita pensata.
E allora, ricordando il precedente articolo di Nadia Burzio, se il primo passo per essere presenti a noi stessi è imparare a godere del silenzio... il secondo passo sarà quello di scoprire che utile non è sempre ciò che serve a qualcosa, ciò che sempre ha un fine, uno scopo; utile non è sempre lo strumento per... Pensiamo a quanto può valere un sorriso nel momento giusto. Forse più di mille parole utili!
Ciò che dunque può far accedere alla pienezza della vita, è qualcosa che ha valore in sé. Il valore di una cosa in quell’esatto istante. Senza più ricercare i perché, le cause o gli effetti.

È necessario partire dalla vita di tutti i giorni per provare a rintracciare le piccole cose in grado di dare significato ai momenti che viviamo. Tali cose che illuminano la vita quotidiana e che aiutano così tanto a vivere possono essere una rosa, un gesto, una parola, una poesia, un sorriso, un canto, una telefonata, una carezza... E sono proprio tali cose inutili che ci aiutano, ci rafforzano e riscoprono la gioia di vivere, rendendo le nostre sofferenze un po’ più sopportabili. Troppo spesso le mettiamo da parte perché considerate poco importanti, perché il tempo è denaro e va impiegato in modo da ottenerne il migliore profitto.

“I primi giorni ero abbastanza disorientato... poi mi sono abituato. Ora corro sicuro da una stazione all’altra della metro... l’altro giorno un signore mi ha chiesto un aiuto: ho continuato a correre per prendere la metro.”
Sono discorsi sempre più frequenti e sentiamo di vivere un disagio, un allontanamento dalle nostre radici naturali, una sorta di alienazione. Sempre più frequentemente andiamo alla ricerca di una qualche formula segreta per cercare di stare meglio.

Proviamo a prendere in considerazione che ciò che accomuna le cose inutili prima elencate, è la bellezza! Allora ci rendiamo conto di quanto queste diventino indispensabili. Ci sentiamo irresistibilmente attratti dalla bellezza perché ci fa star bene.
Perché suscita e risveglia in noi emozioni, sentimenti e affetti.

A tal proposito mi torna alla mente la storia de Il piccolo principe: questi risponde alla volpe che gli chiede di essere addomesticata...

“[...] non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”. “Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!” “Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe.

Ed è proprio così: è necessario trovare il tempo anche per le cose che apparentemente ci possono sembrare meno utili, ma che poi si rivelano in grado di illuminare la nostra vita.
È il tempo che dedichiamo a qualcosa, in grado di renderlo così importante... proprio come la rosa del piccolo principe.
Dedicare richiama alla mente la devozione, dal latino devolvere, “consacrare alla divinità”. E non è forse anche questo uno dei bisogni specificamente umani? Erich Fromm contrappone la devozione alla mancanza di significato. L’uomo ha bisogno di una carta geografica del suo mondo naturale e sociale, senza la quale sarebbe confuso.
L’uomo ha la tendenza a perseguire costantemente il raggiungimento di un equilibrio e di un’unità con il resto della natura. Diversi sono i modi in cui si esprime il bisogno di punti di riferimento e di oggetti di devozione: esso può trovare risposte nella devozione a Dio, all’amore, alla verità.
Pensiamo a coloro che hanno vissuto in condizioni atroci, difficilmente immaginabili, pensiamo ai campi di concentramento. Primo Levi e come lui molti altri, hanno iniziato a creare arte. Creare un libro, creare una scultura... Hanno dovuto passare il testimone di una sofferenza terribile. E passare il testimone era l’unico modo per riuscire a vedere di nuovo il mondo in modo meno spaventoso e meno distante. Lo stesso tentativo di quella persona, di cui citavo le parole all’inizio dell’articolo, quella persona che per la sua personale esperienza ha conosciuto la grande sofferenza mentale.

Cantare può essere considerato inutile, ma indispensabile... solo di cose utili non è possibile vivere.

Claudia Fe

mercoledì 18 novembre 2015

ASSAPORARE IL SILENZIO



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Parte prima: frastuono, vortici di attivismo e silenzi 

Passa un’automobile nella strada sotto casa: un’autoradio a tutto volume, un Ritmo martellante e parole urlate invadono lo spazio di tutti.
Entri in un supermercato, in un grande negozio: anche lì da una radio a tutto volume ti arrivano parole veloci e incalzanti su contenuti per lo più scontati o insignificanti e vacui che apparentemente sembrano tessere dialoghi vitali, in realtà sono un continuo cicaleccio di parole vane. Per non parlare dei modi di celebrare collettivamente la festa: i botti di capodanno, i clacson per la vittoria di una squadra di calcio, il luna park di una festa patronale.
I titoli dei quotidiani talvolta ci dicono che per l’esasperazione da rumore si può anche uccidere.
E per fortuna esiste tutto un universo sonoro che il nostro orecchio non riesce a percepire: sono gli ultrasuoni e gli infrasuoni con frequenze troppo alte o troppo basse.
Mi dice un’adolescente: < Quando torno a casa da scuola e resto sola perché i miei genitori sono al lavoro, accendo la tv mentre pranzo, per riposarmi, mentre studio, quando telefono alla mia amica... così per tutto il pomeriggio.> < Perché? > dico io. < Perché mi fa compagnia > risponde.
Dunque, non sappiamo più lasciarci ospitare dal silenzio? Ci disorienta sostare in questo spazio senza confini?
È vero: il silenzio può essere fuga dal mondo, isolamento, solitudine, emarginazione, inquietudine, indifferenza, rancore, autismo, ricatto, reticenza, omertà. C’è il silenzio dell’immigrato che non conosce la lingua e quello imposto dalle dittature e dalle mafie; c’è il silenzio della malattia che si affronta da soli, il silenzio della morte, della depressione, del suicidio, della miseria. Alcuni credenti in momenti tragici della vita e della storia avvertono anche il silenzio di Dio.
Eppure ci sono vari silenzi portatori di significati positivi anche profondi, come ad esempio nei rapporti di amicizia e d’amore. C’è il silenzio di chi è concentrato, di chi è prudente, di chi è paziente. C’è il silenzio del mistico davanti a Dio o di chi è raccolto in preghiera: è in questo caso il simbolo della comunicazione assoluta. E così c’è il silenzio del monaco: il grande silenzio (come è ben raccontato nel film di P. Gröning). Il silenzio è calma, pacatezza, assenza di agitazione. Si può coglierlo in tutta la grande arte, nella musica e persino nella pittura e nella scultura: è la pace che si respira nellacomposizione.
Poi c’è il silenzio ovattato della neve che nel suo candore diffonde quiete. E ancora: i silenzi nelle varie situazioni della vita quotidiana e nelle relazioni umane hanno diverse possibilità espressive di cui forse l’occidente deve imparare a riscoprire la ricchezza multiforme. Ad esempio “ascoltare” il silenzio dell’altro quando parlo o porre attenzione ai lunghi silenzi in una conversazione mi consente di interagire in modo migliore.
E c’è persino il momento sublime del silenzio della parola poetica: < Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende > (Dante, Par I, 4-6).
Ma la situazione più frequente in cui può trovarsi ciascuno di noi che non sia sommo poeta è quella di paura o sconcerto quando è immerso nel silenzio assoluto. Ci sentiamo soli, disarmati, senza appigli, in pericolo, perduti nel vuoto. Silenzio e solitudine ci paiono necessariamente e inscindibilmente congiunti. Allora il silenzio è vissuto e sofferto come vuoto e assenza anche quando ci troviamo in un ambiente popolato di cose a noi familiari o siamo in un luogo ben noto. Ma religione, filosofia, arte, letteratura, musica dimostrano che il silenzio non è assenza di qualcosa, al contrario è un bene irrinunciabile anche come sorgente di creatività; è il fiume in cui naviga il pensiero umano, come sostiene il prof. Stuart Sim in “Manifesto per il silenzio” pubblicato in Inghilterra all’inizio di settembre 2007. 

Parte seconda: silenzio, un appuntamento con se stessi 

Il silenzio ci spaventa, spesso, perché ci mette a nudo di fronte a noi stessi, ci assedia, ci costringe a non fuggire, ci impone di ascoltarci. Esige di lasciar “parlare” la nostra interiorità la cui “voce” può essere flebile o, più spesso, soffocata. Ci chiede la pazienza di ascoltare in modo non consueto, non con le orecchie, certamente. Ci obbliga a cercare la strada per stare bene e sentirci a nostro agio con noi stessi. Nel silenzio non possiamo non assecondare i nostri pensieri, liberare le nostre paure, lasciar fluire le nostre emozioni. E così capiterà che dalla nostra memoria affiori qualche immagine: un sorriso inaspettato su un volto incontrato nel pomeriggio, una stretta di mano, una parola detta con calore , il verso di una poesia, un fiore raccolto lungo il ciglio della strada in primavera, la dolcezza di una tenera frase d’amore, un “grazie” ricevuto ... piccoli gesti, piccoli eventi “inutili” che ci rianimano, ci rafforzano, allontanano da noi l’inquietudine e l’angoscia.
Quando ci si smarrisce, quando si precipita nel labirinto dell’ansia, quando il nostro pensiero si inceppa e ci divora è il momento di fermarsi. Ci si mette seduti o sdraiati in modo che anche il nostro corpo si a disteso e rilassato Ci si crea uno spazio e un tempo di silenzio, uno spazio di otium, un’oasi di pace; si respira profondamente e ci si affida, quasi ci si consegna alle nostre emozioni, per lasciarle emergere, espandere, a volte, esplodere. Forse abbiamo gli occhi chiusi o forse il nostro sguardo fissa la tazza di tè che abbiamo appena appoggiato sulla mensola, ma non la vediamo perché la nostra mente è concentrata su di sé: considera degne di esistere e quindi dà spazio ed accoglie voci, suoni e immagini della nostra interiorità e del sentire profondo. Il nostro io dialoga con se stesso, esplora, domanda, dà risposte in un fluire incessante ed armonioso o tormentato di pensieri che ci fanno vivere profondamente le più diverse emozioni. E ci è quasi difficile accettare la tenera commozione che ci invade quando attraversiamo le nostre gioie o le nostre paure, le angosce o la pienezza del vivere e del sentire. Così non vorremmo più risalire nel mondo caotico del frastuono delle nostre città. Vorremmo anche fisicamente forse trasferirci in luoghi silenziosi, dove i rumori sono soltanto le voci della natura: su una spiaggia deserta lambita dalle onde del mare, in un fitto bosco in cui filtra tra i rami la luce del sole, alle soglie di un nevaio, in un giardini fiorito. 
Dobbiamo conquistare tempi e spazi di silenzio per lasciarci penetrare e invadere da tutta la sua potenza espressiva e la sua carica comunicativa. Dobbiamo approdare alle spiagge del silenzio per godere della forza interiore, dell’immensità e del mistero che da esso emana. Il silenzio è il luogo della coscienza profonda, è il contatto con il fondo dell’abisso insondabile della persona, è la vera forza attiva che ci conduce alla radice dei significati, all’essenziale, al fondamento delle cose e ci fa ritrovare noi stessi. È necessario imparare a coltivare e valorizzare l’esperienza del silenzio come serenità e quiete psichica. Occorre educarci alla capacità di fare silenzio; è importante conoscerlo, apprezzarlo, stringere un’amicizia affettuosa con il silenzio, perché quest’ultimo non è né antipatico, né fastidioso e neppure nemico della parola. Dobbiamo forse imparare anche a godere del silenzio, ad assaporarlo e gustarlo come un buon cibo non soltanto per evitare i danni alla nostra salute provocati da eccesso di rumori, come aggressività, ipertensione, stress, disturbi cardiaci. Il silenzio è simpatico, ci consente di dimorare presso di noi, di sostare in compagnia con noi stessi, di stare bene, di sentirci a nostro agio, in armonia e in dialogo con la nostra interiorità, sicuri che < il silenzio è come l’utero dove germoglia la parola autentica, vera, essenziale e dove il dialogo trova la sua matrice originaria > (E. Bianchi). 

Nadia Burzio

giovedì 12 novembre 2015

CONCERTO DEL CORO DOLCEMENTE E DELL'ENSEMBLE DI NOTABENE

Il gruppo polifonico Dolce Mente di Cura e Cultura 
e strumentisti e cantanti dell’associazione Notabene di Ivrea vi invitano il 
28 novembre 2015  ore 17.00
presso il Teatro comunale di San Giorgio Canavese 
per un concerto un po'... distorto! 
L'evento è stato organizzato da Casa Bordino (www.casabordino.org), 
con il patrocinio del Comune di San Giorgio Canavese.  

VI ASPETTIAMO NUMEROSI!!!



mercoledì 4 novembre 2015

L'INVISIBILITA' DELLE PERSONE COMUNI

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose


Cara lettrice e caro lettore è un piacere e, nello stesso tempo, una responsabilità iniziare a scrivere queste righe di riflessione. L'ispirazione, se così si può chiamare, mi è venuta dal quotidiano, dalle cose che succedono nel nostro mondo e che sono riportate e amplificate dai mezzi di informazione. Non so se è un caso, forse no, credo succeda spesso, ma questi ultimi mesi hanno visto alle luci della ribalta mediatica e giornalistica una serie di figure, figli e fratelli di questa nostra società televisiva fondata sul comandamento: se vuoi essere qualcuno, o anche semplicemente se vuoi essere, devi apparire. Se non appari sul piccolo schermo non sei nessuno, semplicemente non sei.
Ho letto con piacere, su questo argomento, una striscia quotidiana pubblicata su un noto giornale in cui l'arguto giornalista commentava l'onnipresenza in video di questi personaggi e la corrispondente folta schiera di giovani in mediatica adorazione degli stessi. Fino qui penserete: niente di strano, purtroppo oggi è così! Avete ragione: oggi chi spesso riempie le pagine dei giornali e gli schermi televisivi offre la sua tracotante cafoneria e pochezza in luogo della capacità di svolgere bene e con passione un qualsiasi mestiere o di coltivare un talento, se non quello di inseguire notorietà, soldi o altro. E alle Persone che un tempo venivano definite “perbene”, chi da' voce e presenza? Chi parla delle cosiddette “brave Persone”, quelle delle quali ci si può fidare, con le quali possiamo costruire delle cose, quelle oneste, quelle che sanno distinguere fra bene comune e bene personale, quelle che sanno di esserci perché lo riconoscono nei propri talenti e nel proprio fare?
Queste poche righe sono un tentativo di scrivere di loro, a loro e per loro, un tentativo di rendere visibile anche alla carta stampata, anche ai mezzi di informazione, che il mondo è, ancora e sempre, fatto soprattutto da quelle Persone. Quelle che si alzano presto la mattina, che vanno a lavorare in orario, che svolgono il loro dovere senza fare le scarpe ai colleghi – ce ne sono, non siate increduli, ce ne sono – senza spettegolare dietro le spalle di nessuno, senza rubare, senza cercare di fare carriera costi quello che costi, senza voler arrivare con il coltello fra i denti, che cercano di essere corrette e oneste in tutte le cose piccole o grandi che fanno. Quelle stesse persone tornano poi a casa alla sera e, anche se stanche e magari distrutte dalla giornata di lavoro, riescono a dedicare le loro energie alla famiglia sia che voglia dire sparecchiare e lavare i piatti, sia aiutare i propri figli a fare i compiti. Ed eventualmente nel fine settimana o negli spazi liberi, quelle stesse Persone, sentendo di avere ancora qualcosa da dare, prestano servizio volontario presso chi sta peggio di loro, magari con chi patisce la grande sofferenza mentale. Ce ne sono, ce ne sono, noi li abbiamo conosciuti, questi don Chisciotte del nostro tempo: ma siccome non passano la giornata a fare interviste o a rispondere dai talk show, non vengono neppure notati perché sono silenziosi nel loro incessante vivere e produrre vita quotidiana. E non fanno parte neanche di quella fetta di umanità che diventa nota e fa notizia solo quando ci sono tragedie.
Loro semplicemente vivono e fanno, oggi, domani e continuano a vivere e fare: anche errori, ma senza sbraitare quando vengono fatti loro notare, senza aver bisogno di una tv per replicare la loro posizione. Sono quelli che spesso si sentono dire 'fatti furbo' e che considerano invece un valore il non esserlo, al meno per i canoni attualmente richiesti per diventarlo.
Di sicuro la loro attività e il loro operare, in qualunque campo, sono silenziosi perché usano i toni bassi dell'umiltà. Che bella parola questa, umiltà, che bel significato, troppe volte scambiato con degradato, svilito, poco dignitoso. E che bella parola quest'altra, silenzio, così ricca di suggestioni. Ne parleremo in un prossimo articolo. Certo chi parla sottovoce sempre, chi agisce senza clamore, chi nel suo nascondimento agisce con diuturno impegno non ha bisogno di declamare i valori importanti, e per un motivo molto semplice: perché non ne ha il tempo, perché è troppo impegnato a cercare di metterli in atto tutti i giorni. Queste Persone esistono e sono tante, sono probabilmente la maggioranza. Ma per trovarle, o meglio per riconoscerle, per accorgersi di loro, per confortarci con la loro presenza, occorre abbassare il volume degli schiamazzi televisivi. Allora le si può ascoltare, smettendo di guardare la televisione e i personaggi che propone e osservando chi ci sta accanto, smettendo di concentrarci solo sul nostro bisogno e guardandoci intorno con lo sguardo carico di amore per la Persona.
Come scriveva questo ironico giornalista: per ogni 50 ragazzi che inneggiano al personaggio tv del momento c'è ne sono altrettanti che non lo farebbero mai perché impegnati a fare qualcosa di più bello come leggere un libro o scrivere il proprio diario!! anche se poi non riempiono le pagine dei giornali e quindi, per la nostra società dell'effimero, non esistono. 
Bizzarro e triste: per esserci, nel nostro mondo, occorre essere pubblicizzati, nel bene e nel male, in caso contrario sei una persona che non conta, che non fa tendenza, non sei un modello da seguire. 
A pensarci bene non è così diverso da quello che il Piccolo Principe diceva dalle pagine del libro di Saint- Exupery: “L'essenziale è invisibile agli occhi”. Dobbiamo solo fare attenzione a quello che di essenziale c'è in noi e intorno a noi, per tutto il resto dovremmo ricordare quello che dice Virgilio a Dante nel III Canto dell'Inferno: “non ragioniam di loro, ma guarda e passa.”




Elena Iorio

mercoledì 21 ottobre 2015

LA RISCOPERTA DELLA FRAGILITA': L'ANIMA SMARRITA E LA RICERCA DELL'ANIMA




E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose

Marisa ha cinquant’anni e sta attraversando un momento difficile e molto faticoso: molteplici incombenze, urgenti impegni, tra lavoro e casa, tra genitori anziani e malati e figli adolescenti, un sovraffollamento sul piano concreto che rende la sua vita dura e pesante. Da tempo non ricorda sogni. “E’ un periodo che mi sembra di essere un soldato. Obbedisco. Eseguo, sono immersa nel fare. Da qualche parte soffro, ma non ho quasi il tempo di accorgermene”.

Una mattina arriva da me, in seduta, con un’aria diversa, mi appare subito meno schiacciata, gli occhi vivi, di nuovo luminosi. Inizia dicendo di avere fatto un sogno, un sogno colmo di dolore, che la ricollega ad un evento traumatico del suo passato, e di essersi svegliata piangendo. Ma non perde lo sguardo luminoso e commenta: “oggi sono così felice! Ho ritrovato la mia anima. Mi sento viva, anche se c’è dolore, anche se soffro, ma di nuovo ci sono immagini, di nuovo il mondo interno si è messo in movimento”.

Perdere l’anima, ritrovarla. Gioia anche nel dolore.

Dove si smarrisce l’anima, quando inanimati attraversiamo la vita e ci sentiamo vulnerabili, fragili? Dove si ritira? Dove si nasconde? E il suo riapparire, per Marisa una festa… Sono risuonate in me le parole di Thomas Ogden, in Conversazioni al confine del sogno, quando afferma che “il lavoro psicologico che si svolge al confine tra preconscio e inconscio costituisce il nucleo di ciò che per un essere umano significa essere vivo. Quel confine è il luogo in cui avviene l’esperienza del sogno e della immaginazione; in cui ha origine ogni tipo di gioco e di creatività. […] Il confine tra inconscio e preconscio, il confine del sogno, è anche il luogo metaforico di quella conversazione tipicamente umana che svolgiamo con noi stessi e nella quale l’esperienza grezza che semplicemente è ciò che è si trasforma in esperienza che ha accumulato un po’ di essere Io”.

Ogden indica inoltre una tensione che non è solo l’incessante tentativo dell’inconscio di manifestarsi alla coscienza, ma anche il movimento inverso “di una coscienza che corre continuamente incontro all’inconscio”; è quando manca la comunicazione fra queste due parti che ci si sente fragili e si ha la  sensazione di vuoto e incompletezza.

La vitalità della psiche corrisponde allora al sentirsi pienamente vivi, al non essere separati da se stessi, a un dialogo che con le sue intermittenze ci avverte e ci segnala anche delle perdite di vitalità, dell’estraneità o della difesa proprio della vita psichica. Accade di difendersi dalla vita psichica per paura di soffrire troppo, di cercare più o meno consapevolmente stati di anestesia in cui perdiamo l’anima (e, ahimè, ciò capita a molti): il dolore, la fragilità percepiti possono spingere a cercare, a creare ponti, forse anche, come accade a Marisa, a sentirsi vivi, ma esiste anche il dolore che fissa, che scolpisce un’identità deformata nella parzialità, ma definita, esiste il dolore che trattiene e che fa apparire ogni oltre come un peggio…

Il contatto con l’anima è labile e fuggevole, con bagliori di intensità e lunghi smarrimenti. La ricerca di un contatto con l’anima ha a volte l’andamento carsico di un fiume il cui percorso è riconoscibile solo a posteriori; non manca quindi, è che non riusciamo ad accorgercene mentre scorre. A noi che lavoriamo con l’anima, nostra e altrui, sono necessari pazienza e tempismo, capacità di attesa e capacità di cogliere, tra mille fili, quello vivo nella relazione, sopportazione della perdita e intensificazione della presenza, con ciò che essa pone e chiede e manifesta.

“La ricerca della verità è una forma di passione”, dice Bollas. Ma la verità, le verità si pongono e si decompongono nella ricerca, e la passione indica un vertice di tensione, non una soluzione.

Forse non si scioglie mai, una questione complessa. Forse a volte un nucleo semplice, un momento di verità, si lascia afferrare. Forse intravediamo possibili luoghi di sosta. Ma continua, si continua, finché si è vivi, e Fragilità appartiene alla vita.

“E la cosa grave è questa: passare sopra la propria stessa vita senza addentrarvisi, può avvenire con molta facilità”, scrive Maria Zambrano all’inizio di La vita in crisi. Quando questo accade siamo “inquieti e inattivi. Ci è impossibile l’azione, un’azione autentica che scaturisca dal fondo della nostra persona”.

Di questo scritto si occupa con grande intensità Roberta De Monticelli in La fenomenologia dell’anima smarrita, dove in un passaggio cruciale, si sofferma sul valore etico della sfera dei sentimenti vitali. L’introspezione, il guardarsi dentro, non rimandano più solo a una generica migliore conoscenza di sé, ma riguardano, implicitamente ed esplicitamente, un ascolto di sé, che nel consentire o dissentire rispetto alle proprie emozioni, passioni, sentimenti, ci dice con maggiore nitidezza cosa ci sta più a cuore, cosa è veramente importante per noi, in un “ordine dei nostri amori”, che permetta un riconoscimento di sé, mentre ci apriamo al mondo. La conoscenza di sé, in questo senso, è forse l’unico vero antidoto a una passività affettiva ed emotiva forzata e indotta, a quella inquietudine che rende inaccessibile il “nucleo di calma, di quiete, quella specie di radice della nostra anima sulla quale ci eleviamo senza ricordarcelo”. “Sono i nostri amori che ci rivelano a noi stessi e agli altri”, scrive De Monticelli, “o meglio, sono le nostre prese di posizioni affettive che ci rivelano l’ordine di ciò che ci sta a cuore”.

Il nostro ascolto dell’anima (smarrita, ritrovata), atto d’amore verso noi stessi, della vitalità del sentire, dell’infelicità quando tutto all’interno sembra tacere, può essere avvio per un’azione nel mondo radicata nell’anima.


Andrea Montagnini