mercoledì 28 maggio 2014

IL TUO STILE DI VITA E' IMPORTANTE PERCHE' E' IL TUO

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Prendere atto del tuo divenire psichico, riuscire ad accorgersi che è la fonte del tuo modo di abitare casa tua, di cenare alla sera con i tuoi amici, di riordinare le stoviglie e le stanze il giorno dopo nel silenzio della domenica mattina... Abu Kasem doveva imparare a cambiarsi le babbucce più spesso, doveva imparare ad accettare positivamente quello
scorrere della vita dentro di sé, quel divenire psichico grazie al quale tu – questo voglio dirti oggi, lettore paziente e affezionato – tu sei unico al mondo! Non ci badiamo mai, ma ognuno di noi è un esemplare unico, firmato. Assai prima di illuderci di valere di più grazie ai vestiti griffati, lo siamo già, firmati, con timbro di autenticità: pensa alle impronte digitali, pensa alla tua voce, al tuo dna. Tante volte non ci sentiamo unici, ma lo siamo comunque! Perché vedi, tu solo al mondo, in tutta la storia dell'umanità, tu solo, e nessun altro, ma proprio nessun altro, tu solo hai occupato la minuscola casellina spazio temporale del luogo e della data della tua nascita. Nessuno mai nella storia dell'umanità finora, e nessuno mai in futuro potrà accedere a quel particolarissimo modo di vedere il mondo che hai occupato tu quel giorno a quell'ora, quando tua madre tirò un respiro di sollievo e smise di soffrire.

Ti chiederai: perché tutta questa tirata sul dove e sul quando venisti al mondo – luogo e data di nascita? Perché da quella casellina prende il via il tuo stile di vita, tu cominci a fare quello che – è vero – fanno tutti, ma nessun altro in tutta la storia dell'umanità l'ha fatto e lo farà mai come lo farai tu. Avrai visitato dei reparti di maternità, no? Avrai visto come i neonati siano tutti quasi uguali appena nati. Ci si sbaglia facilmente dietro il vetro della nursery, ah il tuo è quello, non questo che stai salutando. E avrai pure notato che nel giro di poche ore le mossette del tuo cominciavi a riconoscerle subito, tanto erano irresistibilmente diverse da quelle del vicino, il modo di stirare le braccine, di toccarsi il viso, di aprire la boccuccia. Tutto subito rivelava uno stile particolare, il suo – c'era già, ed era nato poche ore prima! – inconfondibile, quello che avresti ritrovato, quelle mosse e quello stile, venti anni dopo nel ragazzone che ti girava per casa.

Prendiamola da un'altra parte: da bambino, a maggior ragione se avevi dei fratellini, capitava che mamma o i nonni si sbagliassero e ti chiamassero con il nome di un fratellino. Eri piccolo e sapevi ben poco di te e del mondo, ma una cosa la sapevi di sicuro: che il tuo nome era il tuo, che quando veniva pronunciato eri tu quello che rispondeva e lo sbaglio innocente della mamma stanca o dei nonni dentro ti offendeva sempre un poco. Lasciamela dire un po' più complicata: da subito, da prestissimo, da quando tu ricordi e forse anche da prima, nel tuo divenire psichico, caro lettore, è sempre brillata un’istanza di unicità che chiedeva di essere vissuta, che sembrava quasi già presente prima di essere vissuta, e che chiedeva, pretendeva a tutti i costi di essere riconosciuta dagli altri. E guai nel tuo piccolo se i grandi non ci facevano attenzione.
Sono io, ti sei accorto, accidenti, che sono io?
Questa istanza accompagna tutta la tua vita, forse è lei a spingerla avanti, inesorabilmente: le hai sempre obbedito – guai se non lo facevi – e senza pensarci tanto hai sviluppato poco alla volta, hai perfezionato il tuo stile di vita, che è poi il modo di vivere che meglio ti consente di fare le cose che hai da fare su questo mondo. Lo stile di vita è tuo come la tua firma, come le tue impronte digitali, è assolutamente unico al mondo e proprio per questo è pieno di valore: nessuno, ma proprio nessun altro può vedere le cose come le vedi tu da quella casellina in cui ti sei insediato tanto tempo fa! Ti rendi conto? Solo tu puoi comunicare agli altri quello che del mondo si vede da quella prospettiva! E lo fai vivendo come vivi, con il tuo modo, con il tuo stile.

Ma te ne dimentichi, tutti noi fatichiamo a ricordarcelo. Siamo proprio fatti strani: facciamo tanta attenzione alle cose più complicate e ignoriamo quelle elementari. Le quali, non perché sono così elementari, sono meno vere e basilari. Il nostro stile di vita ci sta addosso come le pareti di casa nostra e come quelle ci è talmente abituale che non lo vediamo più. Solo che se lo ignoriamo, non ci accorgiamo di quanti tesori contiene, così come peraltro casa nostra.
Per tante ragioni non gli diamo importanza. Te ne dico un'altra, stammi a sentire: certo da una parte è seducente sapere che ho qualcosa che nessun altro ha mai avuto e mai avrà. Il mercato lo sa, e ci spinge a personalizzarci comperando cose che avremo in esclusiva, solo noi ovviamente insieme a moltissimi altri, per la gioia del fatturato. Ma così facendo perdiamo proprio quello che cerchiamo. Perché nessuno meglio di te ha a portata di mano la tua originalità, purché tu non la dimentichi, nessun pubblicitario meglio di te può sapere in cosa sei unico e irripetibile. Se cadi nell'illusione di personalizzarti con i beni di consumo, ti irreggimenti con infiniti altri e ti allontani un po' dalla tua unicità. Aumenti il fatturato delle aziende ma sei un po' più lontano da te stesso e ti accorgi di meno del tuo valore reale.
Il mercato poi sfrutta un altro piccolo fenomeno psicologico: essere unico al mondo, irripetibile, farlo notare è certo desiderio irresistibile, così quell'istanza di unicità così forte viene placata, bene. Ma ha sempre un risvolto un po' conturbante, espone a una certa vertigine. Espone al brivido della solitudine, solitudine che è l'altra faccia dell'unicità. Più sono unico, più sono solo, anche questo è abbastanza ovvio. Ma il mercato ti offre trionfante la luna nel pozzo, la botte piena e la moglie ubriaca: compra, sarai unico, come tutti gli altri, così non devi neppure patire la solitudine!
Ma il tuo compito su questo benedetto mondo è essere te stesso. Solo se tu sei tu, se vivi e indossi il tuo stile di vita come il più comodo abito possibile, solo così riesci anche a vedere l'altro per quello che è, riesci a vedere il suo stile. Anzi ti dirò di più, se tu riesci ad accorgerti e a rallegrarti della tua intima originalità, il tuo sguardo aiuterà anche l'altro a ritrovare la sua e con essa il proprio stile di vita. Se il tuo sguardo vede soltanto la conformità, la griffe del maglione firmato dell'altro, è cieco al tuo amico, ne ignora e nega la presenza.

Cos'è il tuo stile di vita? L'insieme delle tue abitudini quotidiane, il tuo modo di abitare casa tua e di ospitarvi gli amici, il tuo modo di parlare, le cose che ami fare ... il tuo modo di illuminare le giornate con la bellezza. È importante tutto questo, è un tesoro di cui puoi godere tu e donare a quanti ti circondano.

Il tuo stile di vita è importante perché è il tuo! Dell’essere tu, di te lettore, che stai leggendo queste righe, ce n’è proprio solo uno al mondo. Non dimenticarlo.

Giorgio Moschetti e Andrea Montagnini

mercoledì 14 maggio 2014

LA FIABA DELLE BABBUCCE DI ABU KASEM

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.

I mutamenti illuminano il passato e spiegano il futuro. Essi mostrano ciò che è nascosto 
e dischiudono ciò che è oscuro. 
I Ching

La fiaba delle babbucce di Abu Kasem mi fa da tempo riflettere. Credo sappia mettere in evidenza una delle maggiori difficoltà del nostro tempo e indicare la via che è in grado di restituire significato umano al mondo minacciato dal Male. In un momento collettivo di grande difficoltà bisogna ripensare il mondo con nuova attenzione al dialogo e alla solidarietà, intraprendendo la via del Mutamento. Nel percorrere questa via un prezioso aiuto ci è offerto dalle fiabe, che, come dichiara M.L. von Franz, offrono “un modello vitale incoraggiante, che agisce dall’inconscio riportando alla memoria tutte le possibilità positive della vita” (von Franz,1969 p.57). Le fiabe sanno andare “al di là delle differenze culturali e razziali. Il linguaggio della fiaba sembra essere il linguaggio internazionale di tutta l’umanità, di tutte le età e di tutte le razze e le civiltà” (von Franz, 1969 p.14). Il protagonista della nostra fiaba è il tipo più frequente da incontrare nella vita di ogni giorno – non solo nella Bagdad medievale – e per questo ritengo possa essere un modello operante anche per noi. Ma veniamo alla fiaba, poiché, come Jung afferma, è la fiaba la migliore spiegazione di una fiaba, dato che il suo significato è racchiuso nella totalità dei motivi connessi con la trama del racconto.

A Bagdad viveva Abu Kasem , un commerciante noto per la sua grande ricchezza e per quelle sue babbucce vecchie e logore che portava immancabilmente ai piedi, segno tangibile della sua avarizia. Un giorno, concluso un fortunato affare – aveva acquistato a poco prezzo da un mercante fallito una partita di ampolle preziose e una di essenza di rose – volle festeggiare andando ai bagni pubblici. Le sue babbucce sparirono nel vestibolo, al loro posto ne comparvero altre due che Abu Kasem indossò senza remore, pensando fosse il regalo di qualcuno. Quelle babbucce appartenevano al Cadì di Bagdad, anche lui ospite dei bagni, che fece imprigionare Abu Kasem, trovato con le mani nel sacco, anzi, con i piedi nelle babbucce nuove di zecca. E così le vecchie calzature tornarono ad Abu Kasem, dopo che egli ebbe pagato a caro prezzo la sua libertà. Adirato gettò allora le babbucce nel Tigri, ma esse furono pescate pochi giorni dopo da dei pescatori, rovinando le loro reti; questi, furibondi e delusi le scagliarono dentro una finestra aperta, la finestra dell’abitazione di Abu Kasem. Le babbucce atterrarono proprio sulla tavola dove erano state disposte le preziose ampolle riempite d’essenza profumata, mandandole in frantumi. Imprecando disperato, Abu Kasem decise di disfarsi di quelle maledette babbucce e pensò di sotterrarle nel suo giardino. Un vicino invidioso lo vide scavare e lo denunciò, poiché sia il terreno sia le cose che vi erano nascoste appartenevano al Califfo. Accusato e ritenuto colpevole, Abu Kasem dovette pagare un’ammenda, e si ritrovò nuovamente con le sue babbucce e il pensiero di liberarsene al più presto. Le buttò in uno stagno lontano, ma quello era la riserva d’acqua della città e le babbucce ne ostruirono il condotto. Vennero riconosciute come le logore babbucce di Abu Kasem e questo si ritrovò nuovamente in prigione e a pagare un’ammenda più gravosa delle precedenti. Dopo altre sventure, sentendosi un uomo finito, Abu Kasem supplicò il Cadì di non essere più ritenuto responsabile dei danni che le sue babbucce gli avrebbero continuato a creare. Il Cadì accettò la sua supplica e Abu Kasem imparò a caro prezzo quali danni possa procurare il non volersi cambiare abbastanza spesso le babbucce.

Come mostra il racconto, Abu Kasem è posseduto dal vizio della ricchezza-avarizia. Le babbucce costituiscono il suo tesoro, anche quando gli combineranno tanti guai. Sono l’immagine concreta della sua personalità conscia – la gente della città lo conosce come il ricco commerciante dalle vecchie, rattoppate e logore babbucce – e rappresentano gli impulsi del suo inconscio carico di desideri e di voglia di successo – è talmente legato alle sue calzature che queste, anche quando egli sembra volersene liberare, agendo autonomamente, ritornano procurandogli molti guai. È Abu Kasem stesso che combina a sé un’infinità di guai che iniziano dopo aver concluso un affare, l’acquisto di ampolle di cristallo e di essenza di rose. Viste simbolicamente, le ampolle potrebbero essere lo strumento dell’alchimista. Il cristallo è un materiale prezioso, simbolo di limpidezza e di purezza, è simbolo della saggezza e dei poteri misteriosi accordati all’uomo. La rosa rappresenta simbolicamente la coppa della vita, l’anima, il cuore e l’amore e designa una perfezione assoluta, la si può contemplare come un mandala e considerare come un centro mistico. Ma Abu Kasem considera l’affare solo per il suo valore economico e per il piacere che esso procura alla sua passione. Si gonfia, si sente forte e potente. Festeggia andando al bagno turco e lì accade la prima sventura a cui ne seguono altre. Egli, sempre più disperato, non si accorge che è la passione, che ancora lo tiene catturato in modo ossessivo, che gli fa incontrare quelle persone che sono funzionali ad accrescere il suo vizio, la sua sofferenza. È solo lui il responsabile della sua tragedia. Abu Kasem vive la mortificazione di trascinarsi qualcosa che lo imprigiona e lo distrugge, perché non sa come liberarsene. Nel suo agire non ha ascoltato la sua voce interiore. Si è lasciato trascinare dalla sua Ombra. Non è forse questa la condizione in cui si trova chi non riesce a crescere, a mutare, a diventare donna o uomo soddisfatti della propria età? Credo di sì e credo che ci si debba cambiare le scarpe più spesso. Non sarà semplice, per chi, invece di cambiarle, le ha troppe volte rattoppate e ha perso il contatto con la forza dell’anima. Eppure la via c’è ed è sempre possibile ritrovarla.

Abu Kasem, distrutto e senza denaro, ma ancora inseguito dalle logore babbucce che non lo vogliono lasciare, si rivolge al Cadì e lo supplica di non ritenerlo più responsabile dei danni che esse avrebbero continuato a creare. Il Cadì accetta e per Abu Kasem si accende una nuova luce: comprende che tutti i guai nei quali è incappato sono nati dal non aver cambiato spesso le babbucce. Incomincia a patire per la sconfitta e attraverso il dolore e la sofferenza si dispone a ricercare la via del Mutamento. Dai sogni e dalle intuizioni potrà ricevere i messaggi per un’esperienza più profonda e, deo concedente, scoprire il Mistero della sua vita, così che le ampolle di cristallo con l’essenza di rose possano trasformarsi in lui e diventare messaggio di trasparenza, saggezza e amore.

Andrea Montagnini

mercoledì 7 maggio 2014

DEL PRENDERSI CURA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Riprendiamo il nostro discorso per occuparci del prenderci cura. Perché prenderci cura dell’umano? “Perché da noi – dicevamo – che stiamo bene e siamo ricchi, l’umano è sfruttato, è usato, è maneggiato, ma non sembra realmente amato. Figuriamoci altrove, dove è preso a cannonate.” Ci prendiamo cura di ciò che amiamo, prendersi cura è contiguo all'amore.
Prenderci cura dell’umano significa prenderci cura delle Persone, che sono l’umano nel suo aspetto di relazione, di comunità sociale. Significa ricordare sempre che tu, tu che sei la presenza più immediatamente vicina a me, come ognuno di noi porti sempre con te nel tuo vivere un nucleo di sofferenza. O no? Un lungo cammino conduce tutti noi dal nascere quali inermi esseri umani all’Essere Umano nella pienezza della sua manifestazione. È un cammino complesso, talvolta molto accidentato, tortuoso, per lo più segnato dalla sofferenza. Nei casi più drammatici la grande sofferenza mentale ci mostra per quali nodi essenziali ciascuno di noi riesce (o non riesce) ad accedere alla pienezza della Persona, riesce (o non riesce) a sentirsi Persona nella comunità delle Persone, riesce (o non riesce) a sentirsi autore dei propri atti, origine del proprio sentire, responsabile delle proprie scelte. Prendersi cura della grande sofferenza mentale è compito di responsabilità profonda, è insegnamento per il prendersi cura di qualsiasi altra modalità di sofferenza, che poi, come ti dicevo, sempre al suo culmine sconfina in quella. Non diciamo forse in certi terribili momenti sto male da impazzire?
La grande sofferenza mentale ci mostra in profondità e in trasparenza la natura del nostro stesso vivere. A rammentarla tocchiamo con mano la fragilità della condizione umana, della nostra condizione, essa ci insegna cose profonde sulle “normali” relazioni fra Persone. Sapersi avvicinare senza paura e con amore alla follia ci apre a una insostituibile pienezza del quotidiano vivere insieme fra noi, ha una profonda valenza politica: proprio così, politica, se la politica è l'arte del vivere insieme fra Persone nella comunità sociale.
Per noi curare – ti dicevo – è diventato oggi somministrare: aziendale, tecnologico e burocratico, per carità indispensabile, come faremmo senza? Ma in questo curare non c’è chi veramente si prende cura di noi con sollecitudine, diligenza, affetto, premura, attenzione … non c'è chi tiene a noi. Non ci sentiamo accolti, quando siamo trattati come casi e ignorati nella nostra essenza di Persone. Efficienza ed esigenze di bilancio fanno in fretta a spazzare via cortesia e affetti del cuore, ma senza queste cose perdiamo di vista l’umano e la sua bellezza. Perché solo ciò di cui ci prendiamo cura ci regala la sua bellezza. Curare è una cosa, altra cosa è prendersi cura. Almeno per noi, adesso. Sai, quando sono un po' confuso, quando non capisco bene le cose, cerco sul dizionario il significato delle parole. Lo sai cosa voleva dire in origine terapia? Voleva dire servizio. Cura era la stessa cosa di servizio. Chi curava, era al servizio del malato. Terapeutico poi, significava atto a servire, addirittura, pensa un po’, atto a servire gli dei. Ma le cose sono andate diversamente: adesso le prescrizioni del medico per me sofferente sono ordini. Lui mi prescrive cosa fare, in buona sostanza mi dà ordini che io, sempre sotto la pistola puntata della sofferenza, sono ben contento di eseguire, e quindi obbedisco. Il suo potere sul corpo è enorme, ma quel corpo sono io, quindi enorme è il suo potere su di me. Lui d'altronde è così abituato a sentire la sua parola ascoltata, seguita, talvolta riverita – cosa non può fare di noi la sofferenza! – che magari la sua voce si incrina leggermente, accenna a spazientirsi se gli chiedo qualche spiegazione o gli esprimo qualche dubbio. E io taccio all’istante, braccato come sono dal dolore, sto già tanto male, non posso mica turbarlo e perdere il suo favore, la fine della mia sofferenza dipende da lui. Non succede sempre, certo, ma qualche volta sì, e qualche volta forse è già troppo. Questo sarebbe un servire? Qualcosa deve essere andato storto, da un po' di tempo a questa parte, per questo oggi è necessario distinguere fra cura e prendersi cura. Che tu ti prendi cura di me è diverso, significa un’altra cosa: significa che ti accosti alla totalità della mia Persona, che mi senti in quanto Persona, che accogli la mia presenza nel tuo divenire psichico e attraverso di lei ti scopri a te stesso. Significa che tu consenti alla mia presenza di alimentare il tuo venire al mondo con il nuovo che io porto sempre in dono per te. L'incontro fra noi trasforma tanto me quanto te e solo se ne usciamo intimamente trasformati noi ci siamo incontrati realmente, come d'altronde accade in qualunque autentico incontrarsi nella vita. Incontrarti nel mio prendermi cura di te ci conduce, tutti e due noi, verso un reciproco più profondo esserci, mio e tuo, nella nostra più intima presenza, mia e tua. Tu ti sei davvero preso cura di me quando, avendo il calore e la luce della tua presenza liberato il mio divenire incagliato, poi te ne torni a casa più liberato nel tuo, perché il tuo gesto d’amore benefica tanto te quanto me, mai soltanto me. Ricordi? La grande sofferenza mentale è malattia sui generis, e quindi anche la guarigione è guarigione sui generis. Guarire dal male mentale non è tornare a essere ciò che si era prima della malattia: è arrivare a essere finalmente ciò che mai si era riusciti a essere prima. E se io riesco con la mia presenza ad aiutarti a conquistare un frammento in più del tuo esserci esplorando con te la terra di nessuno del tuo vivere, anch’io me ne torno sempre a casa con qualcosina in più.

Giorgio Moschetti