E poi che la sua mano a la mia puose, con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose |
Care
amiche e cari amici,
eccomi
nuovamente a voi con gli aggiornamenti di Cura e Cultura, ancora un po’
rari rispetto a una volta, ma con la speranza e quasi la convinzione che forse
potranno tornare a essere assidui come un tempo. Mi fa piacere offrirvi due
passi che mi hanno recentemente molto colpito. Il primo è tratto dalla
tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, in particolare dal
primo volume Le storie di Giacobbe, scritto fra il 1926 e il 1930. Si
riferisce a Giacobbe, che sarà depredato e umiliato da Elifaz, il figlio di
Esaù:
Quell’anima,
infatti, era debole e paurosa: aborriva dal commettere violenza, tremava al
pensiero di subirla, ed era piena di ricordi avvilenti e umilianti per un
orgoglio virile; essi però non diminuivano né la sua dignità né la sua
solennità, perché sempre, regolarmente, in tali situazioni di umiliazione
fisica, un raggio, un’effusione spirituale, una rivelazione della grazia,
potentemente consolatrice, la investiva confermandola ancora una volta, e in
virtù di questa rivelazione, poiché se l’era creata e conquistata da sé,
traendola dalle profondità non umiliate del suo essere, quell’anima poteva, con
pieno diritto, elevare il capo.
Il secondo
passo proviene dal Diario di Etty Hillesum. Le parole del grande
tedesco, cui venne assegnato il premio Nobel nel 1929, proprio durante la
stesura di Le storie di Giacobbe, mi hanno ricordato questa giovane
donna ebrea di 28 anni, che così scrive nel suo diario, a mezzanotte e mezza
della notte fra sabato e domenica 21 giugno 1942:
Per
umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è
umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare.
Se
manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione,
questa evapora nell’aria.
Circa un
mese dopo questa annotazione, Etty decise di sua spontanea volontà di andare a
Westerbork con gli ebrei prigionieri. Westerbork era un campo di smistamento
nella zona orientale dei Paesi Bassi. Non era un campo di sterminio, ma di
fatto era l’ultima tappa prima di Auschwitz. Sappiamo che rimase a Westerbork
fino al 7 settembre 1943, quando, con il padre, la madre e uno dei suoi
fratelli, Mischa, furono caricati sul treno dei deportati. Da un finestrino di
quel treno gettò una cartolina che fu raccolta e spedita dai contadini: “Abbiamo
lasciato il campo cantando”. Un rapporto della Croce Rossa afferma che Etty
morì ad Auschwitz il 30 novembre 1943.
Consentitemi
ancora di accostare queste due citazioni a quello che mi sembra il senso più
profondo di tutta l’opera di Ludwig van Beethoven. Come emblematico
corrispettivo musicale di questi passi, vi suggerisco il terzo movimento della Sonata
in la bemolle maggiore op. 110: Adagio ma non troppo – Fuga. Allegro, ma
non troppo. Questa musica dimostra in modo lampante che il significato
della musica non tanto chiede di essere decifrato, come comunemente si pensa,
ma chiede, o forse implora, di essere vissuto.
Giorgio Moschetti