mercoledì 15 giugno 2016

VIVERE IN UNA NUOVA PIENEZZA?



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Continuo a stare complessivamente bene, posso viaggiare, leggere libri, andare a concerti, mostre, conferenze e a teatro come e più di prima; dunque, non devo pensarci... Già, ma gli occhiali mi sono indispensabili per leggere e, ora, anche quando salgo in auto non posso guidare senza l’aiuto di lenti per la miopia; sono sicuramente meno agile in alcuni movimenti; quando mi alzo al mattino le ossa scricchiolano leggermente e mi sento un po’ rigida; non oso più salire disinvolta sulla piccola scala per le pulizie casalinghe ... dunque sto proprio invecchiando!

Come scrive Enzo Bianchi in “Ogni cosa alla sua stagione” invecchiare non è certo una novità: tanti sono invecchiati prima di noi e tanti invecchieranno in futuro, ma per ciascuno «la vecchiaia rappresenta un unicum, una novità inedita».

Certamente c’è una vecchiaia fisiologica che, peraltro, non sempre coincide con quella anagrafica: solitamente le si fa cominciare con l’approssimarsi degli ottanta anni, proprio in coincidenza con le aspettative di vita; c’è una vecchiaia burocratica – sessantacinque o sessantasette anni – quando si ha diritto ad una pensione; e c’è una vecchiaia psicologica o soggettiva come già aveva ben individuato e distinto Norberto Bobbio nel suo discorso tenuto all’università di Sassari il 5 maggio 1994 all’età di 85 anni, discorso poi pubblicato nel 1996 nel “De senectute”, testo ricco e un po’ malinconico.

Vorrei porre ora l’attenzione proprio sulla vecchiaia soggettiva, su questo stato d’animo e sulla consapevolezza di vivere tale passaggio di vita perché, mentre si può contrastare soltanto in parte l’invecchiamento biologico dato che di fronte alla degenerazione delle cellule e conseguentemente al pieno funzionamento di alcuni organi, ci dicono i medici, è un po’ impossibile intervenire, dalle crisi di vecchiaia psicologica, invece, forse ci si può riprendere. E non credo che per questo sia utile e necessario continuare l’attività professionale o politica fino agli ultimi giorni della propria esistenza in modo da sentirsi vivere: questa scelta serve, in verità, ad alimentare il dibattito sulla questione dei giovani contro i vecchi nella nostra classe dirigente italiana. Così pure mi pare illusorio cercare di fermare il tempo con una crema per le rughe, una tintura di capelli, una chirurgia estetica in modo da restare eternamente giovani come la diffusa pubblicità ci propone: queste sono tutte maschere che tentano di cancellare o nascondere il dinamismo e le trasformazioni della vita vera. Il volto di una persona anziana racconta la sua storia.

La partenza dei figli, la morte dei genitori e di amici coetanei, ma soprattutto il pensionamento segnano un passaggio netto e chiaro. Ha ragione Enzo Bianchi che colloca questo momento dopo i sessant’anni, «quando ci si trova più fragili, ci si stanca più facilmente e più in fretta, la vista si affievolisce e il corpo perde agilità. Inizia così un tempo in cui l’orizzonte finale non appare più così lontano e diventa arduo rimuoverlo dalla mente» (“Il pane di ieri”, p. 109). Dunque, andare in pensione, da una parte, è liberatorio, spesso è un traguardo atteso e desiderato per tanto tempo, dall’altra, però, può essere tragico perché si è posti inesorabilmente davanti al fatto che inizia per noi l’ultima fase della vita, sia essa di qualche anno o di alcuni decenni. La giovinezza è il partire, la vecchiaia è l’arrivare. Il tempo futuro aperto davanti a noi non ci appare come un percorso e un cammino da progettare: la vecchiaia è un tramonto, a «sessant’anni uno ha superato da un pezzo il solstizio d’estate.» (P. Delerm)

Che ne sarà allora dei nostri giorni? Si prospetta soltanto il tempo delle malattie e il momento del congedo definitivo? Che cosa ci sarà oltre la vita? Ci sarà un oltre? Ci sarà almeno «un giardino dei pensieri lontani», dove –come scrive Dacia Maraini nel libro “La grande festa” – «Forse sarà la voce della poesia a tenere in movimento le menti. E le parole penderanno dai rami come frutti. E si faranno canto mentre la lira di Orfeo riprenderà a suonare scendendo dal cielo stellato.»? Per la scrittrice questa è una quasi certezza, e per noi? Non ci resta che rassegnazione o cinismo o egoismo o solitudine? Non ci resta che adagiarci malinconicamente nei propri ricordi e consolarci con il proprio passato?

Anche forte delle mie ultime letture e conseguenti riflessioni, mi sento di affermare che si può cercare il cambiamento, anziché subirlo, patirlo o lasciarci da esso dominare. Oh, so bene che la vecchiaia può essere malattia e sofferenza, ma la sofferenza è connaturata con la vita in tutte le sue fasi. E quanto alla terza età in specifico, forse si può imparare ad invecchiare: ogni età hai suoi ritmi, le sue attività e i suoi doveri. Come ad ogni passaggio di vita dobbiamo affrontare la fatica di abbandonare il vecchio equilibrio per costruirne a poco a poco uno nuovo: si tratta di una svolta paragonabile ad una morte a cui, però, in questo caso, dobbiamo far seguire una rinascita, tramutare, cioè, una perdita in una bella occasione di crescita. Come già scriveva Elena Tosatti in “Accettazione e cambiamento”, testo pubblicato a marzo 2011 su questo stesso sito, dobbiamo «arrenderci alle cose come stanno per poi ripartire in modo diverso e nuovo». Dobbiamo acconsentire ai mutamenti, dedicarci con cura e passione al sentimento del tempo che passa, forse, abitando più intensamente con se stessi e sperimentando quanto ha affermato Adriana Zarri «Solo il viaggio dentro noi stessi ci restituisce al mondo innamorati della vita».

Al decadimento fisico non necessariamente deve corrispondere un decadimento della forza interiore: «le cose importanti (res magnae) non si fanno né con la forza né con l’agilità o con la celerità, ma con il senno, con il prestigio e con le idee: doti queste di cui la vecchiezza solitamente non soltanto non si impoverisce, addirittura si arricchisce». (Cicerone, “De senectute”, 17)

La dimensione della gratuità, dello stupore, della tenerezza, della generosità, della pazienza, della poesia possono conservare in noi la solarità, la speranza, la calma e il sorriso che ci consentono di guardare con occhi sempre nuovi anche alle cose consuete di tutti i giorni, ci invitano a godere degli affetti che il tempo non ha consumato, a gioire per la piacevolezza di un incontro, ad assaporare con gusto un cioccolatino o un caffè con gli amici, a ripensare con serenità al senso dell’esistenza continuando il proprio cammino.

Enzo Bianchi conclude il capitolo «Senesco» del suo libro “Ogni cosa alla sua stagione” con queste parole preziose che assegnano a ciascuno di noi una grande responsabilità nei confronti della terra e di tutti gli esseri viventi: 
«Quest’anno ho piantato un viale di tigli lungo la strada che conduce al mio eremo: mi son chiesto se riuscirò a godere della loro ombra e soprattutto delle ventate di profumo dei loro fiori nel mese di maggio. Ma li ho piantati per rendere più bella la terra che lascerò, li ho piantati perché altri si sentano inebriati dal loro profumo, come lo sono stato io da quelli degli alberi piantati da chi mi ha preceduto. La vita continua e sono gli uomini e le donne che si susseguono nelle generazioni, pur con tutti i loro errori, a dar senso alla terra a dar senso alle nostre vite, a renderle degne di essere vissute fino in fondo».

Nadia Burzio

Nessun commento:

Posta un commento