E poi che la sua mano a la mia puose, con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose |
Continuo a stare complessivamente bene, posso
viaggiare, leggere libri, andare a concerti, mostre, conferenze e a teatro come
e più di prima; dunque, non devo pensarci... Già, ma gli occhiali mi sono indispensabili per leggere
e, ora, anche quando salgo in auto non posso guidare senza l’aiuto di lenti per
la miopia; sono sicuramente meno agile in alcuni movimenti; quando mi alzo al
mattino le ossa scricchiolano leggermente e mi sento un po’ rigida; non oso più
salire disinvolta sulla piccola scala per le pulizie casalinghe ... dunque sto
proprio invecchiando!
Come scrive Enzo Bianchi in “Ogni cosa alla sua stagione”
invecchiare non è certo una novità: tanti sono invecchiati prima di noi e tanti
invecchieranno in futuro, ma per ciascuno «la vecchiaia rappresenta un unicum,
una novità inedita».
Certamente c’è una vecchiaia fisiologica che,
peraltro, non sempre coincide con quella anagrafica: solitamente le si fa
cominciare con l’approssimarsi degli ottanta anni, proprio in coincidenza con
le aspettative di vita; c’è una vecchiaia burocratica – sessantacinque o sessantasette
anni – quando si ha diritto ad una pensione; e c’è una vecchiaia psicologica o
soggettiva come già aveva ben individuato e distinto Norberto Bobbio nel suo
discorso tenuto all’università di Sassari il 5 maggio 1994 all’età di 85 anni,
discorso poi pubblicato nel 1996 nel “De senectute”, testo ricco e un po’
malinconico.
Vorrei porre ora l’attenzione proprio sulla vecchiaia
soggettiva, su questo stato d’animo e sulla consapevolezza di vivere tale
passaggio di vita perché, mentre si può contrastare soltanto in parte
l’invecchiamento biologico dato che di fronte alla degenerazione delle cellule
e conseguentemente al pieno funzionamento di alcuni organi, ci dicono i medici,
è un po’ impossibile intervenire, dalle crisi di vecchiaia psicologica, invece,
forse ci si può riprendere. E non credo che per questo sia utile e necessario continuare
l’attività professionale o politica fino agli ultimi giorni della propria
esistenza in modo da sentirsi vivere: questa scelta serve, in verità, ad
alimentare il dibattito sulla questione dei giovani contro i vecchi nella
nostra classe dirigente italiana. Così pure mi pare illusorio cercare di
fermare il tempo con una crema per le rughe, una tintura di capelli, una
chirurgia estetica in modo da restare eternamente giovani come la diffusa pubblicità
ci propone: queste sono tutte maschere che tentano di cancellare o nascondere
il dinamismo e le trasformazioni della vita vera. Il volto di una persona anziana
racconta la sua storia.
La partenza dei figli, la morte dei genitori e di
amici coetanei, ma soprattutto il pensionamento segnano un passaggio netto e
chiaro. Ha ragione Enzo Bianchi che colloca questo momento dopo i sessant’anni,
«quando ci si trova più fragili, ci si stanca più facilmente e più in fretta,
la vista si affievolisce e il corpo perde agilità. Inizia così un tempo in cui
l’orizzonte finale non appare più così lontano e diventa arduo rimuoverlo dalla
mente» (“Il pane di ieri”, p. 109). Dunque, andare in pensione, da una parte, è
liberatorio, spesso è un traguardo atteso e desiderato per tanto tempo,
dall’altra, però, può essere tragico perché si è posti inesorabilmente davanti
al fatto che inizia per noi l’ultima fase della vita, sia essa di qualche anno
o di alcuni decenni. La giovinezza è il partire, la vecchiaia è l’arrivare. Il
tempo futuro aperto davanti a noi non ci appare come un percorso e un cammino da
progettare: la vecchiaia è un tramonto, a «sessant’anni uno ha superato da un
pezzo il solstizio d’estate.» (P. Delerm)
Che ne sarà allora dei nostri giorni? Si prospetta
soltanto il tempo delle malattie e il momento del congedo definitivo? Che cosa
ci sarà oltre la vita? Ci sarà un oltre? Ci sarà almeno «un giardino dei
pensieri lontani», dove –come scrive Dacia Maraini nel libro “La grande festa” –
«Forse sarà la voce della poesia a tenere in movimento le menti. E le parole
penderanno dai rami come frutti. E si faranno canto mentre la lira di Orfeo riprenderà
a suonare scendendo dal cielo stellato.»? Per la scrittrice questa è una quasi certezza,
e per noi? Non ci resta che rassegnazione o cinismo o egoismo o solitudine? Non
ci resta che adagiarci malinconicamente nei propri ricordi e consolarci con il
proprio passato?
Anche forte delle mie ultime letture e conseguenti
riflessioni, mi sento di affermare che si può cercare il cambiamento, anziché
subirlo, patirlo o lasciarci da esso dominare. Oh, so bene che la vecchiaia può
essere malattia e sofferenza, ma la sofferenza è connaturata con la vita in
tutte le sue fasi. E quanto alla terza età in specifico, forse si può imparare ad
invecchiare: ogni età hai suoi ritmi, le sue attività e i suoi doveri. Come ad
ogni passaggio di vita dobbiamo affrontare la fatica di abbandonare il vecchio
equilibrio per costruirne a poco a poco uno nuovo: si tratta di una svolta
paragonabile ad una morte a cui, però, in questo caso, dobbiamo far seguire una
rinascita, tramutare, cioè, una perdita in una bella occasione di crescita.
Come già scriveva Elena Tosatti in “Accettazione e cambiamento”, testo pubblicato
a marzo 2011 su questo stesso sito, dobbiamo «arrenderci alle cose come stanno
per poi ripartire in modo diverso e nuovo». Dobbiamo acconsentire ai mutamenti,
dedicarci con cura e passione al sentimento del tempo che passa, forse, abitando
più intensamente con se stessi e sperimentando quanto ha affermato Adriana
Zarri «Solo il viaggio dentro noi stessi ci restituisce al mondo innamorati
della vita».
Al decadimento fisico non necessariamente deve
corrispondere un decadimento della forza interiore: «le cose importanti (res magnae) non si fanno né con la forza
né con l’agilità o con la celerità, ma con il senno, con il prestigio e con le
idee: doti queste di cui la vecchiezza solitamente non soltanto non si
impoverisce, addirittura si arricchisce». (Cicerone, “De senectute”, 17)
La dimensione della gratuità, dello stupore, della
tenerezza, della generosità, della pazienza, della poesia possono conservare in
noi la solarità, la speranza, la calma e il sorriso che ci consentono di
guardare con occhi sempre nuovi anche alle cose consuete di tutti i giorni, ci
invitano a godere degli affetti che il tempo non ha consumato, a gioire per la
piacevolezza di un incontro, ad assaporare con gusto un cioccolatino o un caffè
con gli amici, a ripensare con serenità al senso dell’esistenza continuando il
proprio cammino.
Enzo Bianchi conclude il capitolo «Senesco» del suo
libro “Ogni cosa alla sua stagione” con queste parole preziose che assegnano a
ciascuno di noi una grande responsabilità nei confronti della terra e di tutti
gli esseri viventi:
«Quest’anno ho piantato un viale di tigli lungo la
strada che conduce al mio eremo: mi son chiesto se riuscirò a godere della loro
ombra e soprattutto delle ventate di profumo dei loro fiori nel mese di maggio.
Ma li ho piantati per rendere più bella la terra che lascerò, li ho piantati
perché altri si sentano inebriati dal loro profumo, come lo sono stato io da
quelli degli alberi piantati da chi mi ha preceduto. La vita continua e sono
gli uomini e le donne che si susseguono nelle generazioni, pur con tutti i loro
errori, a dar senso alla terra a dar senso alle nostre vite, a renderle degne
di essere vissute fino in fondo».
Nadia Burzio
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