E poi che la sua mano a la mia puose, con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose |
Mi hanno sempre incuriosito le etimologie. Ci
riportano alle origini, o meglio, alle radici. Fanno stare in piedi –le radici –, danno un senso, una direzione verso l'altro. Volevo scrivere alto, verso
il cielo, su; ho scritto altro. La ti e la erre sulla tastiera sono vicine, si
sono battute insieme e hanno lasciato traccia entrambe.1
Dunque, dicevo radici: la radice etimologica della
parola in-canto/in-cantare (e quindi anche dis-in-canto/dis-in-cantare, nella
sua variante di negazione) è un rafforzativo di canto che può assumere anche il
significato di “fare magie”, e chi si occupa di canto inteso come prendersi
cura sa bene quale stupore e quale magia possa essere la scoperta della propria
voce. Così come è consapevole della sofferenza che la scomparsa del canto
procura.
La voce, infatti, secondo quanto ho appreso e sperimentato in primis
su me stessa nel corso di questi anni, rappresenta la nostra identità più
profonda, il nostro personale legame col mondo che ci circonda e col nostro
universo interiore. E anche le nostre radici, pertanto. Le radici corrono, si
aprono varchi, sfondano barriere, si fanno strada senza perdere mai il contatto
con la fonte d'origine. La voce è dialogo e il canto è coralità, polifonia,
vale a dire la più alta espressione del nostro con-esserci nel mondo. Grazie
alla voce noi tutti ci facciamo strada nel mondo, unici e irripetibili come il
nostro timbro vocale, alla ricerca di nuovi stimoli che serviranno per
costruire la nostra identità. Nella sofferenza mentale la voce diviene un
canale privilegiato di comunicazione autentica, un modo affatto speciale di
superare talora quell'invisibile barriera (invisibile agli occhi degli altri)
che ostacola il flusso delle emozioni.
Durante i molti mesi in cui ho preso
parte a prove e concerti, ho conosciuto da vicino persone che a fatica
riuscivano ad usare la propria voce per lasciare una significativa traccia di
sé nella vita quotidiana: gridare una paura, urlare al mondo la propria rabbia,
dare voce ad una qualsivoglia emozione per condividerla con coloro che
dovrebbero rappresentare uno specchio in cui riflettersi ma che, anch'essi,
subiscono il silenzio. Nulla di male, naturalmente, se questo silenzio è frutto
di una scelta attiva e consapevole che mi consente di ripiegarmi su me stessa;
diverso è se il silenzio si trasforma in solitudine, in linguaggio
incomprensibile e non condivisibile. E' l'IN-CANTO che svanisce e che non mi
permette più di parlare al e col mondo, che non mi consente più di stabilire dei
legami significativi con l'altro il quale, anziché divenire lo specchio in cui
poter riconoscere le mie possibilità, diviene impietosamente e unicamente il
riflesso dei miei limiti e delle mie angosce.
Diventa insomma DIS-IN-CANTO, mancanza, negazione che,
in quanto negazione del canto, è negazione di me stesso. Quando sono costretto
a mettere a tacere la mia voce, è come se mettessi a tacere ciò che sono e ciò
che potrei diventare. Vengono meno il dialogo e il confronto che mi
consentirebbero di sprigionare (letteralmente togliere dalla condizione di
prigionia) le mie energie, di liberare le mie radici.
Ma chi mai potrebbe impedirmi di cantare? Non è il
canto libera espressione, per fortuna non ancora soggetta a censura?
Evidentemente non è così per tutti, non lo è per coloro che devono imparare a
“dar voce” al proprio esistere e possono imparare a fare questo solo se qualcuno
vede nel canto una possibilità concreta di ristabilire un contatto con
l'universo circostante.
Tanti sono stati i momenti in cui ho visto sorrisi di
soddisfazione per una nota che proprio non ne voleva sapere di venire bene e
che finalmente usciva sicura, per un concerto pienamente riuscito, per un pezzo
difficile che “sta su” dopo molte e ripetute prove; ma anche la delusione per
una prova andata così così, per un concerto faticoso ... Quali che fossero le
reazioni a seconda delle circostanze, ciò che più conta è che vi era la possibilità
di esprimerle e di misurarsi con gioie e delusioni individuali e di gruppo. Una
sorta di magia..., di IN-CANTO per l'appunto!
Attimi di pura umanità in cui hanno fatto da sfondo
ilarità, stanchezza, attimi di sfiducia presto recuperati e trasformati in occasioni di
miglioramento e soddisfazione.“Maestro, non riesco!” “Ma certo che ci riesce, siamo
qui per questo! Si concentri e guardi come faccio io. Faccia un bel respiro,
occhio all'appoggio e ...”. Potrei continuare all'infinito ma, purtroppo,
questo piacevole appuntamento del venerdì, con le sue prove, le sue pause-caffè,
le presenze, talvolta le assenze è stato bruscamente e inaspettatamente
interrotto.
La notizia ci ha colti di sorpresa e ha colto di
sorpresa soprattutto coloro che beneficiavano di questi incontri oramai
consolidati ma mai dati per scontati. “Maestro, il coro continuerà ad esserci? Le faremo ancor le pause-caffè?”
Manifestazioni di tenerezza, di sconforto, di speranza e di paura tristemente
racchiuse in una risposta incerta: “Vedremo, per ora non sappiamo dire nulla”.
La “razionalizzazione” ha colpito ancora. Ma vorrei
che qualcuno mi spiegasse cosa c'entri la razionalità in tutto questo ... Un
paradosso di questi tempi, oserei dire! Un paradosso che ha colpito ancora una
volta chi non può dar voce alle proprie richieste, chi non può rivendicare i
propri diritti ma che vive nella costante attesa che qualcuno si accorga della
sua esistenza e della sua umanità e che decida delle sue sorti. E allora la voce,
potente strumento nelle nostre mani per imprimere un segno del nostro passaggio
nel mondo, ridiventa fragile, si fa piccola piccola e si richiude in se stessa
in coloro che attendono di essere ascoltati e al cospetto di chi impone il
silenzio.
E come potevamo
noi cantare ... ? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano
appese, oscillavano lievi al triste vento. 2
Ma vedremo. Per ora non sappiamo dire nulla ...
Monica Ramazzina
1 “Se dico radici dico storie” di Gian Luca Favetto – ed. Laterza.
2 “Alle fronde dei salici” di S. Quasimodo
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