mercoledì 1 giugno 2016

DIS-IN-CANTO



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Mi hanno sempre incuriosito le etimologie. Ci riportano alle origini, o meglio, alle radici. Fanno stare in piedi –le radici –, danno un senso, una direzione verso l'altro. Volevo scrivere alto, verso il cielo, su; ho scritto altro. La ti e la erre sulla tastiera sono vicine, si sono battute insieme e hanno lasciato traccia entrambe.1

Dunque, dicevo radici: la radice etimologica della parola in-canto/in-cantare (e quindi anche dis-in-canto/dis-in-cantare, nella sua variante di negazione) è un rafforzativo di canto che può assumere anche il significato di “fare magie”, e chi si occupa di canto inteso come prendersi cura sa bene quale stupore e quale magia possa essere la scoperta della propria voce. Così come è consapevole della sofferenza che la scomparsa del canto procura. 

La voce, infatti, secondo quanto ho appreso e sperimentato in primis su me stessa nel corso di questi anni, rappresenta la nostra identità più profonda, il nostro personale legame col mondo che ci circonda e col nostro universo interiore. E anche le nostre radici, pertanto. Le radici corrono, si aprono varchi, sfondano barriere, si fanno strada senza perdere mai il contatto con la fonte d'origine. La voce è dialogo e il canto è coralità, polifonia, vale a dire la più alta espressione del nostro con-esserci nel mondo. Grazie alla voce noi tutti ci facciamo strada nel mondo, unici e irripetibili come il nostro timbro vocale, alla ricerca di nuovi stimoli che serviranno per costruire la nostra identità. Nella sofferenza mentale la voce diviene un canale privilegiato di comunicazione autentica, un modo affatto speciale di superare talora quell'invisibile barriera (invisibile agli occhi degli altri) che ostacola il flusso delle emozioni.

Durante i molti mesi in cui ho preso parte a prove e concerti, ho conosciuto da vicino persone che a fatica riuscivano ad usare la propria voce per lasciare una significativa traccia di sé nella vita quotidiana: gridare una paura, urlare al mondo la propria rabbia, dare voce ad una qualsivoglia emozione per condividerla con coloro che dovrebbero rappresentare uno specchio in cui riflettersi ma che, anch'essi, subiscono il silenzio. Nulla di male, naturalmente, se questo silenzio è frutto di una scelta attiva e consapevole che mi consente di ripiegarmi su me stessa; diverso è se il silenzio si trasforma in solitudine, in linguaggio incomprensibile e non condivisibile. E' l'IN-CANTO che svanisce e che non mi permette più di parlare al e col mondo, che non mi consente più di stabilire dei legami significativi con l'altro il quale, anziché divenire lo specchio in cui poter riconoscere le mie possibilità, diviene impietosamente e unicamente il riflesso dei miei limiti e delle mie angosce.

Diventa insomma DIS-IN-CANTO, mancanza, negazione che, in quanto negazione del canto, è negazione di me stesso. Quando sono costretto a mettere a tacere la mia voce, è come se mettessi a tacere ciò che sono e ciò che potrei diventare. Vengono meno il dialogo e il confronto che mi consentirebbero di sprigionare (letteralmente togliere dalla condizione di prigionia) le mie energie, di liberare le mie radici. 

Ma chi mai potrebbe impedirmi di cantare? Non è il canto libera espressione, per fortuna non ancora soggetta a censura? Evidentemente non è così per tutti, non lo è per coloro che devono imparare a “dar voce” al proprio esistere e possono imparare a fare questo solo se qualcuno vede nel canto una possibilità concreta di ristabilire un contatto con l'universo circostante.

Tanti sono stati i momenti in cui ho visto sorrisi di soddisfazione per una nota che proprio non ne voleva sapere di venire bene e che finalmente usciva sicura, per un concerto pienamente riuscito, per un pezzo difficile che “sta su” dopo molte e ripetute prove; ma anche la delusione per una prova andata così così, per un concerto faticoso ... Quali che fossero le reazioni a seconda delle circostanze, ciò che più conta è che vi era la possibilità di esprimerle e di misurarsi con gioie e delusioni individuali e di gruppo. Una sorta di magia..., di IN-CANTO per l'appunto!

Attimi di pura umanità in cui hanno fatto da sfondo ilarità, stanchezza, attimi di sfiducia presto recuperati e trasformati in occasioni di miglioramento e soddisfazione.“Maestro, non riesco!” “Ma certo che ci riesce, siamo qui per questo! Si concentri e guardi come faccio io. Faccia un bel respiro, occhio all'appoggio e ...”. Potrei continuare all'infinito ma, purtroppo, questo piacevole appuntamento del venerdì, con le sue prove, le sue pause-caffè, le presenze, talvolta le assenze è stato bruscamente e inaspettatamente interrotto. 

La notizia ci ha colti di sorpresa e ha colto di sorpresa soprattutto coloro che beneficiavano di questi incontri oramai consolidati ma mai dati per scontati. “Maestro, il coro continuerà ad esserci? Le faremo ancor le pause-caffè?” Manifestazioni di tenerezza, di sconforto, di speranza e di paura tristemente racchiuse in una risposta incerta: “Vedremo, per ora non sappiamo dire nulla”.

La “razionalizzazione” ha colpito ancora. Ma vorrei che qualcuno mi spiegasse cosa c'entri la razionalità in tutto questo ... Un paradosso di questi tempi, oserei dire! Un paradosso che ha colpito ancora una volta chi non può dar voce alle proprie richieste, chi non può rivendicare i propri diritti ma che vive nella costante attesa che qualcuno si accorga della sua esistenza e della sua umanità e che decida delle sue sorti. E allora la voce, potente strumento nelle nostre mani per imprimere un segno del nostro passaggio nel mondo, ridiventa fragile, si fa piccola piccola e si richiude in se stessa in coloro che attendono di essere ascoltati e al cospetto di chi impone il silenzio.

E come potevamo noi cantare ... ? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. 2

Ma vedremo. Per ora non sappiamo dire nulla ...

Monica Ramazzina

1 “Se dico radici dico storie” di Gian Luca Favetto – ed. Laterza.

2 “Alle fronde dei salici” di S. Quasimodo

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