venerdì 9 giugno 2017

EUROPA FERITA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose

Care amiche e cari amici,
abbiamo anteposto al simbolo di Cura e Cultura la bandiera dell’Europa. Le elezioni presidenziali francesi – che emozione, la lunga camminata di Emmanuel Macron al suono dell’Inno alla gioia – quelle olandesi e prima ancora quelle presidenziali austriache sono state tutte segnali incoraggianti di un cambio di vento e di futuro per la nostra Europa. Queste settimane invece, dovrei dire questi giorni dal momento che gli attentati stanno diventando quasi quotidiani, sono scandite da orrori a ripetizione.

Qualcuno ha scritto che l’Europa, in quelli che mi viene da chiamare dolori del parto, sta dando un bell’esempio di resilienza, di capacità di resistere a traumi ripetuti senza perdere sé stessa, anzi diventando ancor più sé stessa, come luogo al mondo nel quale è più bello vivere e crescere come esseri umani, perché l’umano vi è rispettato. La prova è dura, lunga e dura: l’odio è contagioso e chi ci uccide vuole soprattutto che noi diventiamo come lui, che gli rispondiamo con lo stesso odio. E questo è proprio il pericolo peggiore che l’Europa deve sventare. Perché Europa, se vuole essere sé stessa, deve con Yeats saper cantare più forte ad ogni strappo della sua veste mortale, deve saper rispondere all’odio con il canto e con la gioia, deve saper celebrare l’umano, saper vincere sull’odio con rispetto e con amore per l’umano.

Vedo esempi di resilienza:

-) nella lettera che Antoine Leiris scrisse ai terroristi cinque giorni dopo la strage del Bataclan. So che ve l’ho già inviata, ma non perdiamo occasione per rileggerla:

‹‹Venerdì sera avete rubato la vita di un essere eccezionale, l'amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatto a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa. 
L'ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d'attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di dodici anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno, e poi giocheremo come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo bambino vi farà l'affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio››.

-) nelle parole con le quali il poliziotto Etienne Cardiles commemora il suo collega e compagno Xavier Jugelé ucciso nell’attentato ai Champs-Elysées a Parigi il 20 aprile scorso‹‹Quest’odio non ti somiglia, resterai nel mio cuore per sempre. Ti amo››  

-) nelle case di quanti, dal Bataclan, a Nizza … a Manchester, a Londra, nei momenti dell’orrore le aprirono, le loro case – erano gente comune – per accogliere i passanti in pericolo, sconosciuti ma non più estranei.

Di fronte alle ferite dell’orrore, il tessuto sociale ferito si rinserra solidale. A chi mi chiede aiuto per sopportare tanto orrore, a chi mi chiede che senso abbia tutto ciò, rispondo che questo orrore ha il senso che noi riusciamo a dargli. E che senso possiamo dargli? Non basta dire che dobbiamo continuare la nostra vita di prima senza lasciarci impaurire e senza permettere al terrore di cambiare le nostre abitudini. Non basta, perché è giusto ma insufficiente. Invece qualcosa deve cambiare, simili orrori non possono lasciare le cose come stanno. Noi dobbiamo rispondere vivendo molto più sul serio e con maggiore profondità e pienezza rispetto a prima, credendo assai di più e assai più sul serio nei nostri valori, lo dobbiamo per onorare quanti sono caduti. Dobbiamo onorarli con il nostro vivere, non dobbiamo più vivere soltanto la nostra vita, ma anche la loro che è stata così orribilmente tolta. Sta a noi rispondere a questo odio per la vita con la gioia della vita, amandola più che mai, la vita, vivendola ancora più pienamente e consapevolmente. Per loro, che sono caduti. E se questo faremo, non sarà stata vana la loro morte.

Poi, lasciateci nel nostro piccolo, cantare nonostante l’orrore, cantare più forte ad ogni strappo della nostra veste mortale, con un piccolo tour nel tempo e nello spazio: Urbino nel 1507, Mantova nel 1607, Londra pochi anni prima.

Ecco una delle cinquanta Stanze di Pietro Bembo, nate nel 1507, dettate ­– come scrive il poeta stesso – in brevissimo spatio fra danze et conviti, ne’ romori et discorrimenti della corte di Urbino, in cui il trentaseienne Pietro era giunto da Venezia. (dalla Domenica de ilSole24ore, 7 maggio 2017) 

Amor è gratïosa et dolce voglia,
che i più selvaggi et più feroci affrena;
Amor d’ogni viltà l’anime spoglia
et le scorge a diletto e trahe di pena; 
Amor le cose humili ir alto invoglia,
le brevi et fosche eterna e rasserena;
Amor è seme d’ogni ben fecondo,
et quel ch’informa et regge et serva il mondo.

Proprio 100 anni dopo, il 24 febbraio 1607, la Musica si presenta agli spettatori nel Palazzo Ducale di Mantova, durante la prima esecuzione de L’Orfeo, favola in musica di Claudio Monteverdi su libretto di Alessandro Striggio:  

Io la Musica son, ch’ai dolci accenti
so far tranquillo ogni turbato core,
ed or di nobil ira ed or d’amore 
poss’infiammar le più gelate menti. 

E così Orsino, duca di Illiria, apre la prima scena de La dodicesima notte, scritta da William Shakespeare pochi anni prima: 

Oh, la musica, sì! 
S’è vero ch’essa è cibo dell’amore,
somministratemene ancora tanto, 
che la mia fame alfine d’esso sazia, 
possa ammalarsene, fino morire! 
Di nuovo quella melodia! Ancora! 
Aveva una sì languida cadenza, 
che mi sentivo come carezzare l’orecchio da un soave venticello
che alitando su un prato di violette
ne rubi e ne diffonda la fragranza… 

E concludiamo con una grande voce dei nostri tempi sciagurati: il 26 aprile 2017 Renzo Piano ha inaugurato il Lenfest Center for the Arts, la scuola d’arte della Columbia University, il secondo edificio del nuovo campus su Broadway e la 125” Street a Harlem, periferia nord di Manhattan. Il primo edificio, già in funzione, è il laboratorio di neuroscienze “Mind, Brain and Behavior”. Alla sera del 26 aprile c’è stata una grande festa per gli studenti e i loro professori. Renzo Piano al mattino ha chiuso il discorso di inaugurazione con queste parole:

Stasera con i ragazzi parlerò di bellezza. Perché la bellezza non è solo quella dell’arte consolidata: è emozione, ricerca, conoscenza, scoperta. 
E poi perché la bellezza è anche un gesto politico. 
Dà forza ai desideri ed è una delle poche emozioni umane capaci di competere con quelle, ben più pericolose, del denaro, del potere e della conquista.” (dalla Domenica de ilSole24ore, 30 aprile 2017)

Un caro saluto a tutte e a tutti, Giorgio Moschetti

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