giovedì 9 febbraio 2017

THOMAS MANN, ETTY HILLESUM E LUDWIG VAN BEETHOVEN



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Care amiche e cari amici,
eccomi nuovamente a voi con gli aggiornamenti di Cura e Cultura, ancora un po’ rari rispetto a una volta, ma con la speranza e quasi la convinzione che forse potranno tornare a essere assidui come un tempo. Mi fa piacere offrirvi due passi che mi hanno recentemente molto colpito. Il primo è tratto dalla tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, in particolare dal primo volume Le storie di Giacobbe, scritto fra il 1926 e il 1930. Si riferisce a Giacobbe, che sarà depredato e umiliato da Elifaz, il figlio di Esaù:

Quell’anima, infatti, era debole e paurosa: aborriva dal commettere violenza, tremava al pensiero di subirla, ed era piena di ricordi avvilenti e umilianti per un orgoglio virile; essi però non diminuivano né la sua dignità né la sua solennità, perché sempre, regolarmente, in tali situazioni di umiliazione fisica, un raggio, un’effusione spirituale, una rivelazione della grazia, potentemente consolatrice, la investiva confermandola ancora una volta, e in virtù di questa rivelazione, poiché se l’era creata e conquistata da sé, traendola dalle profondità non umiliate del suo essere, quell’anima poteva, con pieno diritto, elevare il capo.

Il secondo passo proviene dal Diario di Etty Hillesum. Le parole del grande tedesco, cui venne assegnato il premio Nobel nel 1929, proprio durante la stesura di Le storie di Giacobbe, mi hanno ricordato questa giovane donna ebrea di 28 anni, che così scrive nel suo diario, a mezzanotte e mezza della notte fra sabato e domenica 21 giugno 1942:

Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare.
Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria.

Circa un mese dopo questa annotazione, Etty decise di sua spontanea volontà di andare a Westerbork con gli ebrei prigionieri. Westerbork era un campo di smistamento nella zona orientale dei Paesi Bassi. Non era un campo di sterminio, ma di fatto era l’ultima tappa prima di Auschwitz. Sappiamo che rimase a Westerbork fino al 7 settembre 1943, quando, con il padre, la madre e uno dei suoi fratelli, Mischa, furono caricati sul treno dei deportati. Da un finestrino di quel treno gettò una cartolina che fu raccolta e spedita dai contadini: “Abbiamo lasciato il campo cantando”. Un rapporto della Croce Rossa afferma che Etty morì ad Auschwitz il 30 novembre 1943.

Consentitemi ancora di accostare queste due citazioni a quello che mi sembra il senso più profondo di tutta l’opera di Ludwig van Beethoven. Come emblematico corrispettivo musicale di questi passi, vi suggerisco il terzo movimento della Sonata in la bemolle maggiore op. 110: Adagio ma non troppo – Fuga. Allegro, ma non troppo. Questa musica dimostra in modo lampante che il significato della musica non tanto chiede di essere decifrato, come comunemente si pensa, ma chiede, o forse implora, di essere vissuto.

Giorgio Moschetti

mercoledì 21 settembre 2016

SEMINARI CURA E CULTURA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Come sapete, Cura e Cultura si fa ponte fra la bellezza della grande musica e chi, soffrendo profondamente il male di vivere, più di ogni altro ha disperato bisogno di amore e bellezza. Per cinque anni ci siamo rivolti alla fruizione di quel grande catalogo dell’animo umano che è l’opera. Una convenzione con il Teatro alla Scala di Milano ci ha consentito di offrire gratuitamente ogni anno, ai nostri amici in sofferenza, uno o due spettacoli, la maggior parte dei quali preparati dei nostri seminari introduttivi.
 
Ogni opera nasce da una storia, condensata in un libretto. La musica è al servizio della parola, ne libera tutti i significati amplificandone la musicalità latente, ne combina il ritmo interno con la particolare espressività dei vari intervalli della scala, sagomando così la parola nelle due dimensioni del tempo e delle altezze. Impensabile l’opera senza musica, ma la parola sta sempre al centro.
 
Ora ci proponiamo di avvicinare la musica da sola, non più a corredo di un dramma. Riprenderemo l’anno prossimo la nostra esplorazione del panorama operistico. In questo autunno invece nostro obiettivo sarà la musica, soltanto la musica. La parola nei Seminari ci aiuterà a prepararci per accoglierla in modo che possa esplicare tutto il suo benefico potere. Ci farà da guida l’ultima sinfonia di Gustav Mahler, la sua Nona in re maggiore, scritta nel 1909, nell’indimenticabile registrazione dell’agosto 2010, con Claudio Abbado alla direzione dell’Orchestra del Festival di Lucerna.
 
Ci introdurranno all’ultima sinfonia di Gustav Mahler tre Seminari, nelle seguenti date:
 
23 ottobre 2016: 1° Seminario, il primo movimento della Sinfonia n. 9 di Gustav Mahler. Ore 14 – 17,    
 
6 novembre 2016: 2° Seminario, il secondo e il terzo movimento della Sinfonia n. 9 di Gustav Mahler. Ore 14 – 17,
 
4 dicembre 2016: 3° Seminario, il quarto movimento della Sinfonia n. 9 di Gustav Mahler e ascolto integrale della sinfonia. Ore 14 – 18.
 
I tre Seminari si svolgeranno tutti, per la gentile disponibilità della famiglia Iorio, a Casa Iorio, corso Vercelli 258, Ivrea.  
 
Costo dei tre Seminari: euro 70,00 iva inclusa. 
Quota di iscrizione a Cura e Cultura per l’anno 2016: euro 50.
 
Per ulteriori informazioni potete contattare il numero 0125/76680.
 
Un caro saluto a voi tutti. 

Giorgio Moschetti

lunedì 22 agosto 2016

RIFLESSIONI SU TEMPI DOLOROSI




E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
 







 23 giugno: Brexit.
Un brutto colpo:
per chi, giovanissimo e con incredula coscienza degli orrori della seconda guerra mondiale, ricevette dalle parole di Altiero Spinelli il sogno di un’Europa unita e in pace;
per chi, nel 1985, vide adottare dai capi di Stato e di governo dei paesi membri come inno ufficiale dell'Unione Europea l’Inno alla gioia, dal quarto movimento della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven;
per chi, con incredula ma questa volta gioiosa coscienza, nel novembre 1989 vide cadere il muro di Berlino e un anno dopo vide la riunificazione della Germania;
per chi, poco dopo, vide cadere le frontiere con l’attuazione del trattato di Schengen e la libera circolazione fra gli Stati Europei;
per chi, nel 2002, vide con gioia l’introduzione nella vita quotidiana della moneta comune, l’euro.

14 luglio: Nizza.
Orrore. Con l’Isis vediamo con orrore (lo so, è una ripetizione, ma non trovo altra parola …) ripresentarsi qualcosa che, illusi, speravamo di esserci lasciati alle spalle con la fine dei totalitarismi del Novecento.

22 Luglio: Monaco.
Ancora orrore.

Ma prima il 13 novembre scorso a Parigi, e poi il 23 marzo scorso a Bruxelles, e poi altri piccoli (!) attentati, quasi quotidiani, gesti di emulazione o forse no.
  
Il 23 luglio di prima mattina ci stavamo recando, con la piccola Adele di 3 anni, a Pombia, per una lieta giornata con lei a scoprire gli animali. Guidando sull’autostrada io tacevo pensando con angoscia ai fatti di Monaco della sera prima, dei quali non si avevano ancora notizie precise, se non che tre persone, allora sembravano ancora tre, in un’altra sparatoria avevano ucciso diversi ragazzi. Ci fermammo in un autogrill per una piccola colazione ed entrando in questo non luogo mi accorsi con sorpresa che, diversamente da quanto mi era sempre capitato in precedenza entrando in un non luogo, non mi sentivo affatto in mezzo a estranei: quanti mi circondavano non mi erano più estranei, non lo erano più, mi sembrava di stare in un grande noi, mi sembrava di sentirmi e forse di essere più gentile e quasi più sorridente e accogliente verso chiunque. Non so quanto di tutto ciò sia trapelato nel mio comportamento, forse ben poco o forse nulla. Tuttavia quel vissuto di un grande noi, l’attenuarsi almeno per un istante della malattia dei nostri tempi, quell’individualismo sfrenato che trasforma l’altro in un estraneo, mi fece bene, attenuò un poco l’angoscia per i fatti del giorno prima e mi rese più serena la giornata. 

Francesco si chiedeva angosciato alcune settimane fa: cosa ti è successo Europa? Lasciatemi aggiungere: Svegliati, Europa, svegliati, ricordati chi sei, prima che sia troppo tardi.

Eppure una risposta a quanto ci succede, c’è. Vi riporto integralmente il Buongiorno di Massimo Gramellini su La Stampa del 17 novembre scorso:

Se ciò che chiamiamo Occidente ha un senso, questo senso palpita nelle parole con cui Antoine Leiris si è rivolto su Facebook ai terroristi che al Bataclan hanno ucciso sua moglie.
‹‹Venerdì sera avete rubato la vita di un essere eccezionale, l'amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatto a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.
L'ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d'attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di dodici anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno, e poi giocheremo come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo bambino vi farà l'affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio››.

Infine, per chiudere questa riflessione sofferta e meditata, vi propongo ancora queste considerazioni di Thomas Mann, tratte da Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, una magnifica Incompiuta del grande tedesco che vi lavorò a più riprese per tutta la vita, riuscendo come raramente altrove a coniugare delicatamente lievità e umorismo con profondità e sapienza umana.   

Se si guarda l’amore con occhi nuovi, come fosse per la prima volta, quale cosa stupefacente e commovente ci si offre! Esso è né più né meno di un miracolo! Tutta l’esistenza, in fondo, presa nel suo complesso, è un miracolo, ma l’amore a mio giudizio è il più grande … la natura ha diviso e differenziato con cura un essere dall’altro … ma nell’amore la natura fa un’eccezione – molto strana se la si contempla con occhi nuovi … l’uomo vive isolato nella sua pelle, staccato dagli altri … vuole essere così distinto come è, vuole star solo ed in sostanza non vuol saperne degli altri. L’altro, ogni altro entro la sua pelle, gli è in sostanza ripugnante, e non ripugnante gli riesce in ultima analisi unicamente la sua stessa persona … La vicinanza fisica dell’altro, se troppo invadente, gli è insopportabile … [ma] interviene una cosa con cui la natura devia da quella sua situazione fondamentale … In che consiste questa deviazione della natura da sé stessa? Che cosa annulla, con grande stupore dell’universo, la distinzione fra una corporeità e l’altra, fra l’Io e il Tu? È l’amore. Una cosa di tutti i giorni, ma eternamente nuova e, veduta da vicino, né più né meno che inaudita …[nell’innamoramento] il bacio è l’inizio di tutto quanto segue, perché è la muta e stupefacente proclamazione che la vicinanza, massima vicinanza, illimitata vicinanza, la stessa vicinanza prima molesta sino a soffocarci, è divenuta invece sintesi di ogni desiderio. L’amore … attraverso agli amanti fa di tutto, tenta i mezzi estremi per rendere la vicinanza illimitata e perfetta, per portarla sino alla reale e totale unificazione di due vite distinte – il che peraltro, triste e grottesca verità, non gli riesce mai, malgrado ogni sforzo. Non può superare sino a tal punto la natura che, pur avendo istituito l’amore, si attiene per principio alla scissione. Che due diventino uno non accade fra amanti, accade al più fuori di loro, in un terzo, nel figlio, frutto dei loro sforzi.
L’amore … non sta soltanto nell’innamoramento, nel quale cessa in modo stupefacente di riuscir sgradevole la distinzione corporea. L’amore pervade il mondo intero con delicate tracce ed allusioni della sua presenza. Quando lei all’angolo della strada non dà soltanto un paio di centesimi al sudicio piccolo mendicante che alza gli occhi verso di lei, ma gli passa una mano, anche non inguantata, sui capelli, benché probabilmente pieni di pidocchi, e intanto gli sorride, continuando poi il suo cammino più felice – che cos’è questo se non l’orma delicata dell’amore? … quel passar la mano nuda sulla testa pidocchiosa del monello, quel sentirsi più felice di prima è forse una manifestazione d’amore più straordinaria che la carezza ad un corpo amato ... Gli uomini si danno la mano – questa è cosa abituale, quotidiana, convenzionale, lo fanno senza pensarci … senza sentimento, senza ricordare che è stato l’amore a creare quest’abitudine; lo fanno, ma serbando i corpi a dovuta distanza – non troppo vicini, per carità! Ma al di là della distanza e del sorvegliato isolamento essi tendono le braccia e le mani estranee si ritrovano, s’intrecciano, si stringono … E tutto questo non è nulla, è cosa comunissima, non ha importanza, così si crede, così sembra. Ma in realtà, a guardar bene, questo entra nell’ambito del meraviglioso, è una piccola festa della deviazione della natura da sé stessa: è la rinuncia alla ripugnanza dell’estraneo per l’estraneo, è l’orma dell’amore segreto e onnipresente.


Giorgio Moschetti

mercoledì 13 luglio 2016

L’ALTRO SONO IO (La bellezza di un incontro autentico)



E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Oggigiorno frequentiamo spesso luoghi nei quali gli individui si incrociano senza entrare in relazione, spinti dal desiderio di accelerare le operazioni quotidiane o di giungere più rapidamente altrove. E nel mondo attuale ci sono spazi in cui è particolarmente accentuato questo transito veloce senza incontri. L’antropologo Marc Augè (1992) ha coniato il neologismo “nonluogo” definendo con questo termine tutti quegli ambiti che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi, ad esempio, i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, gli aereoporti, le autostrade; se ci imbattiamo in persone di nostra conoscenza in uno degli spazi sopra menzionati, in genere ci limitiamo al saluto o ci soffermiamo poco perché abbiamo fretta. Aggiungiamo alla velocità che ci fagocita ogni giorno, figlia di questi tempi , anche la rabbia, il senso di impotenza verso tutto quello che stiamo vivendo nel nostro amato Paese, e di cui la maggior parte di noi non è responsabile, in particolar modo se il nostro dovere lo abbiamo sempre fatto, se le tasse le abbiamo sempre pagate, se le leggi le abbiamo sempre rispettate. Aggiungiamo tutto il disagio della eccessiva materialità che stiamo vivendo perché spesso si sono superati i limiti, allargati i confini, spinti dal consumo fine a sé stesso, spinti dalla moda, al “fanno tutti così”.... Ogni giorno ci imbattiamo in molte persone, ma solo se vogliamo incontrare veramente qualcuno, dobbiamo volerlo fare ed impegnarci a farlo, spesso dovendoci fermare, spesso dovendo scegliere il “Kaìros”, ovvero il “tempo giusto”, nel rispetto reciproco, nostro e dell’altro. Ma che significa “incontrare” le persone? Ci accorgiamo dell’altra persona e la incontriamo davvero se cogliamo l’occasione dell’incontro, raccogliamo la nostra attenzione e ci dedichiamo a quel momento di condivisione. Durante la nostra vita, nel nostro quotidiano si ha l’occasione di incontrare molte persone: l’incontro può diventare, per chi lo coglie e lo accoglie, un’opportunità di crescita, un’opportunità di conoscere e incontrare in modo autentico altre persone, e... di incontrare sé stessi. L’altro è sempre una grande opportunità di incontrare sé stessi. Esistono incontri superficiali che poco ricordiamo o che ci hanno lasciato tracce minime e incontri che invece sono stati per noi fondamentali e trasformativi, nella gioia o nella sofferenza. Nel dizionario etimologico della lingua italiana si legge che la parola incontro deriva dal latino in e contra, col significato principale di trovare davanti a sé qualcosa o qualcuno, per caso o deliberatamente. Andando più a fondo del concetto e aggiungendo così valore e significato, incontrare l’altra persona è molto di più: significa anche accoglierla, offrirle la propria disponibilità, considerarla, ascoltarla attentamente e attivamente, riconoscerne non solo la faccia visibile che ci presenta e che ci permette di individuarla, ma anche quella più nascosta.

Per raggiungere l’obiettivo dell’incontro vero bisogna rivolgere uno sguardo non superficiale, ma attento ed amorevole verso l’umano, uno sguardo che riesca a notare i particolari, a cogliere le piccole cose e gli impercettibili accenni rivelatori di assonanze e diversità rispetto a noi, essendo, sempre consapevoli che quell’incontro è sicuramente occasione per imparare, si può ricevere e si può donare. Per incontrare davvero gli altri in modo autentico bisogna prima incontrare sé stessi. Per realizzare questo fondamentale obiettivo è necessario volerlo: bisogna raccogliere la nostra attenzione su noi stessi e camminare con i nostri pensieri, percorrendo luoghi dell’anima noti e consueti e affrontando sentieri sconosciuti. La lettura di alcuni testi di vari autori, in primis Jung, Adler, Hillman, e il raffronto tra i loro scritti, mi hanno permesso in modo particolare di soffermarmi a riflettere sulla mia relazione con gli altri esseri umani, su come si attua il mio incontro con gli altri, su come mi pongo nei confronti degli altri, sul significato della mia vita, sul mio contributo lavorativo alla società umana. Penso che più dei libri mi abbiano arricchito le persone e l’incontro autentico con loro. Mi ha indotto molto a riflettere su questo tema il discusso film di Ermanno Olmi “Centochiodi”(2007), dove un giovane ma già affermato professore di filosofia dell’Università di Bologna compie un gesto indubbiamente esagerato ed esecrabile, inchiodando dei libri preziosi ad un pavimento in legno e poi inscenando la sua morte per potersi allontanare e riflettere sulla sua vita, su tutti i libri che ha studiato in solitudine e superbia: egli ritrova l’autenticità dell’esistere intrecciando rapporti di amicizia con gente semplice e meno istruita, mettendo a frutto ciò che ha imparato sui libri condividendolo con gli altri, e permettendo agli altri di insegnare a lui. L’incontro con l’altro, in quanto diverso da me, mi costringe a ricordarmi l’essenziale del vivere, l’essenziale del rapporto con le persone. Credo che il significato che attribuiamo all’incontro con l’altro e la partecipazione a cui dobbiamo cedere nell’incontro reciproco ci permette di conoscere il significato della bellezza, dell’amore e di ogni altro valore della vita. Nell’incontro autentico con l’altro, nella trasformazione a cui si sceglie di abbandonarsi in favore dell’altro, nella disposizione totale a essere presente e ad accogliere, è presente l’amore, in una delle tante forme in cui si manifesta. Guardandomi intorno, incontrando le persone, leggendo, continuo a rafforzare e confermare il mio pensiero: l’incontro autentico con altre persone è fondamentale non solo per il pratico vivere quotidiano, ma anche per poter compiere appieno l’opera della vita: solamente attraverso gli altri, infatti, possiamo conoscere noi stessi, porci domande, attribuire senso e significato ai fatti della nostra vita al fine di trasformarli in esperienza, accoglierli, metterli a frutto per noi stessi e per la società umana.


Elena Tosatti