venerdì 24 aprile 2015

5 per 1000 a Cura e Cultura

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Care Amiche e cari Amici,
sono molto contento di annunciarvi che Cura e Cultura è ufficialmente diventata Associazione di Promozione Sociale (APS) ed è stata iscritta negli elenchi delle istituzioni beneficiarie dei versamenti del 5 per mille relativi alla prossima dichiarazione dei redditi. Questo vuol dire che nella prossima dichiarazione dei redditi voi potrete destinare il 5 per mille della vostra imposta IRPEF a sostegno di Cura e Cultura. Questa scelta non comporterà alcuna spesa per voi essendo una quota d'imposta a cui lo Stato rinuncia. Se non effettuerete alcuna scelta, il vostro 5 per mille resterà allo Stato. 

Quindi vi invito, assai caldamente, a sostenerci indicando nella vostra dichiarazione dei redditi, alla voce 5 per mille, il seguente codice fiscale
 
93032700010
 

mercoledì 25 marzo 2015

ANCORA SULL'ESSERE AUTENTICO, CON PARTICOLARE RIGUARDO AL MODO D'AMORE


E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Sentirsi autentici diventa dunque un continuo percorso di riflessione, di maturazione e di lavoro su di sé. Così scrivevamo su queste pagine  nell'ultimo articolo parlando di autenticità. Vorremmo oggi continuare  questo discorso, lettrice attenta e lettore paziente, con attenzione al ruolo del modo d'amore nell'essere autentici. Quel modo di amore, di cui già abbiamo parlato, che solo può garantire che la relazione fra noi, perno di ogni vita sociale, divenga cura e impegno per la bellezza della nostra presenza. 
Tutti noi siamo frutto dell’amore: in un modo o nell'altro, talvolta solo carnalmente e altre volte non solo. Se siamo stati fortunati, siamo nati e cresciuti in un’atmosfera d’amore: agli inizi l’amore dei nostri genitori, o di chi ne ha fatto le veci, attraverso carezze, sguardi, tenerezze ci ha permesso di non frammentarci, di non andare in pezzi, di tenere insieme e organizzare i frammenti del nostro vivere e fare esperienza fin quando più tardi avremmo finalmente iniziato a dire “io”. Poi l’amore che ci ha circondato, compiacendosi nello scoprire i nostri talenti e dell’estendersi del nostro potere, ha permesso che crescessimo sviluppandoli. Ancora l'amore ha consentito infine che da grandi ci manifestassimo liberamente.

Se siamo stati fortunati! Altrimenti – e quante volte! – tutto ciò, o parte di ciò non è accaduto.

Ma ognuno di noi, fortunato o meno, rimane una Persona: cosmo unico e irripetibile, le cui bellezze possono essere rivelate e scoperte solo dall'amore. Quell'amore, se lo sappiamo trovare e tener vivo  in noi nel tormentato corso della vita, quell'amore ci può guidare ogni giorno in ogni gesto, in ogni relazione umana, solo la sua presenza può rendere davvero autentico ogni atteggiamento verso l’altro. Autenticità di relazione è esserci totalmente, stare con pienezza nella relazione con l’altro,  nella chiara consapevolezza della reciproca influenza trasformativa, del cambiamento e rinnovamento che ogni autentico incontro comporta. 
Volgiamoci per un momento, come facciamo spesso in queste righe, alla grande sofferenza mentale. Per prendersene davvero cura è indispensabile sviluppare il modo d’amore, l'unico modo dell'umano che sa discernere con lucida intelligenza in profondità, che attento a non espropriarla rispetta l’intimità dell’altro, che sa accoglierne e rispettarne la differenze, unico contenitore che gli consente di “tenersi insieme”. Solo il modo d'amore, che è compito primario del terapeuta saper trovare e stabilmente mantenere in sé , solo questo aiuta autenticamente i “malati” a unificare in una identità stabile, centro di valore, il caos di esperienze fluttuanti nel quale si sentono frammentati e dispersi. E sempre solo con il modo d’amore il terapeuta può accompagnarli a sentirsi (perché li riconosce e li conferma in quanto tali), autori dei propri atti, fonte delle proprie scelte, origine del proprio sentire; può accompagnarli a sperimentare il vivere almeno qualche volta come conferma, riuscita, successo, come gioia, come pienezza di significato. Per prendersi cura della grande sofferenza mentale occorre sapersi compiacere intimamente della presenza del “malato”, viverla come fonte allo stesso tempo di gioia e tenerezza (perché centro di valore), alla maniera della madre che ama comunque i propri figli solo perché esistono, e poi alla maniera del padre che gioisce a veder sviluppate le competenze. Occorre nutrire fiducia ad oltranza nell’emergere della Persona dal caos psicotico e compiacersi al crescere del potere del “malato”, anche nei confronti del terapeuta, il quale deve permettere serenamente questa indispensabile traslazione di potere, che in fin dei conti è il suo obiettivo primario. Il modo d'amore svela i bisogni inespressi, scopre i talenti nascosti, certo insieme all'opportuna distanza che permette all'altro di riconoscere e prendere coscienza dei suoi bisogni esprimendoli; ma è anche capacità di severità nel richiamare al vivere e al convivere nel rispetto delle regole comuni; capacità di fermezza dello stabilire i confini fra i ruoli; capacità di dire sì e di dire no.

Ora tutto questo riguarda soltanto il prendersi cura della grande sofferenza mentale e non ha alcuna rilevanza per la nostra normale vita quotidiana? O piuttosto se fra noi sapessimo comportarci così, la vita non diventerebbe forse una gioia continua? E non varrebbe la pena di sopportare tutti i dolori di questo mondo, se noi sapessimo stare così fra noi nel modo d'amore?
Questo modo di stare insieme non deve limitarsi al contesto terapeutico: nel senso che lo stesso amore propizia ciascuno di noi a dare il meglio di sé, a manifestare appieno la propria unicità, nelle relazioni normali quotidiane con l’altro. Il relazionarsi è farsi permeabile all’altro, in apparenza diverso e distante da noi, ma sempre Persona, come lo siamo noi, è consentire che la tua presenza mi trasformi facendo emergere la parte più autentica di me.
La qualità di questo legame di relazione fa sì che ci si formi e trasformi reciprocamente alla luce di ogni intenso scambio affettivo. Comunicare con autenticità è donare all’altro la consapevolezza del proprio essere con fiducia; è essere veramente capaci di entrare in relazione in una dimensione di profondo rispetto e ascolto empatico con l’altro ... Ma prima occorre essere in tale modo con noi stessi, come diceva la nostra collega la volta scorsa, poiché anche se animati dalle migliori intenzioni non possiamo dare agli altri ciò che noi stessi non abbiamo riscoperto in noi. E’ importante riscoprire in noi e divenire consapevoli della lucida intelligenza del modo d'amore, indispensabile per rendere creativa qualunque relazione. Così si può  rifiorire. Tutti noi.

Elena Tosatti e Giorgio Moschetti

venerdì 16 gennaio 2015

ESSERE SE' STESSI: IL MIO MODO AUTENTICO DI STARE INSIEME A TE

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose

Ogni nostra giornata è costellata dalle relazioni con le Persone: in famiglia, a lavoro, nei negozi, per la strada.... Caro lettore, ti sei mai interrogato sul tuo particolare modo di porti in relazione agli altri? Come senti te stesso nella relazione?

Vivere un rapporto autenticamente significa viverlo con assoluta sincerità e immediatezza, con adesione totale. Un incontro reale fra me e te può trasformarci e ci arricchisce, e lo stesso può accadere in qualsiasi incontro autentico nella vita. Che cosa succede, invece, quando non ti senti autentico? Quando ti presenti in altro modo, distante da te stesso? Il disagio che provi nel vivere la relazione con l’Altro in questo modo, è fonte di sofferenza.
Ma occorre fare un passo indietro.

Talvolta non è affatto facile dirsi davvero le cose come stanno, e succede di non essere sinceri e onesti con sé stessi prima che con gli altri! Quando mi riferisco al sentirsi autentico intendo un sentire profondo: non solo autentici rapporti umani, ma anche un rapporto vero con la propria psiche. Il primo sguardo è dunque verso la nostra natura profonda: perdendo questo sentire, questo rapporto profondo con noi stessi, rischiamo l’estraniazione; rischiamo di abbandonare e smarrire ciò che è cresciuto e si è sviluppato con noi stessi, lungo tutto l’arco della vita, fino ad oggi.

Mi ritrovo a pensare all’infanzia: cosa c’è di più spontaneo, immediato e sincero di un bambino? La curiosità di un bambino fa sì che ponga domande ed una domanda significa molto: significa non solo riconoscere di non sapere, ma anche la curiosità di conoscere. E così dovremmo imparare dai bambini: preservando, custodendo, ritrovando, ogni giorno della vita, quella curiosità.
Porti domande, cercare di scoprire, essere curioso della vita, dell’esperienza personale e dell’esperienza in generale, può aiutare nel non perdere quel profondo sentire autentico.

Per sentire di essere vero è necessario anche accettare te stesso, con i tuoi limiti, difetti e pregi. Sono due cose diverse l’avere un obiettivo e cercare di raggiungerlo per migliorarti, e il non accettarti e fingere di essere qualcun’altro. Ciò può portare allo smarrimento!

Il nostro porci autentico, l’uno nei confronti dell’altro, abbiamo detto che ci arricchisce e ci trasforma. É questa autenticità che, trasmettendo e veicolando significati, permette di aiutare l’altro a ritrovare il suo valore, a condizione però di riuscire, prima di tutto te stesso, ad accorgerti della tua particolare unicità. Solo se tu sei tu, riesci anche a vedere l’altro per quello che è: ed è proprio questo atteggiamento autentico nel prendersi cura che aiuta l’altro!

Mostrarti con assoluta sincerità significa anche abbassare le difese, rischiare di essere giudicato per quello che realmente sei.
L’immagine che mi torna alla mente è quella di una fortezza, al cui interno sei protetto e al sicuro. In questo luogo sai che nulla può accadere, ma se da un lato non può accaderti niente di male, dall’altro, la fortezza non ti riserva neppure niente di buono.
E allora giungi a domandarti ad un certo punto: ciò che senso ha?

Lasciare la fortezza significa passare alla condivisione: incontrarsi realmente. Non è facile, ci vuole coraggio, ma è forse un modo per iniziare ad intravedere la felicità. 

Se però autenticità è trovare te stesso e se ciò fa star bene, allo stesso tempo, come è difficile trovare la ricetta per essere autentici! La ricetta pronta non c’è, e non c’è un segreto da scoprire che sia valido per sempre. Pare quasi un ossimoro: nel momento in cui il porsi come autentici diventa uno sforzo, l’autenticità è persa.
Proprio per questo chiedo a te, caro lettore, di fermarti a riflettere su questo tema. E forse la domanda posta all’inizio andrebbe riformulata: quando sperimenti la tua natura autentica? ...dando per scontato che ognuno di noi possiede questa natura profonda.
Provando ad offrire un possibile punto di vista risponderei che sono autentica quando sono me stessa liberamente e semplicemente, senza cercare di cambiarmi o di essere qualcun’altro, ma restando semplicemente ciò che sono.

Penso che il nostro cuore ami davvero conoscere la verità. Quando scopri qualcosa per te stesso, c’è gioia e soddisfazione. Questo è caratteristico di tutti noi! Talvolta è doloroso comprendere qualcosa, ma poiché la comprendiamo è vera e bella. Per cui la sfida è seguire la qualità del cuore che ama sperimentare direttamente e autenticamente.

Sentirsi autentici diventa dunque un continuo percorso di riflessione, di maturazione e di lavoro su di sé.

Claudia Fè


giovedì 11 dicembre 2014

NOI SIAMO BISOGNOSI DI BELLEZZA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose

Noi tutti siamo bisognosi di bellezza. Qualche volta in modo disperato, quando la sofferenza per anni ci sfigura, come capita a quanti di noi sono afflitti dal grande male mentale. La paura fa rifiutare il rischio del vivere, la passiva inerzia minimizza (almeno dovrebbe) la sofferenza: con queste due compagne, la vita diventa un'infinita minaccia dominata dalla categoria del brutto. È brutto sentire di non valere nulla, è brutto sentire di essere incapaci di tutto, è brutto fallire continuamente, è brutto rifugiarsi nel delirio, nel bere.

Ma riflettiamo un momento.

Il “malato”, come ognuno di noi, è un progetto. Ma è un progetto scomposto, irriconoscibile, disperso nel caos; tuttavia è al mondo, è spinto ciecamente dalla necessità di esserci. Si trova sulle spalle questo compito del vivere, che gli è piombato addosso senza chiedere il suo parere, e non sa come fare: è una presenza incastrata fra la necessità di essere al mondo – devo vivere, sono stato buttato nel mondo, la biologia del mio corpo lo reclama – e l’incapacità di farlo – ma non so come si fa, non mi ci raccapezzo ...

Il “malato”, come ognuno di noi, non solo è al mondo: è lui stesso un mondo, per sconquassato che sia, e come tale potrebbe sempre dirci qualcosa su questa avventura del vivere, che ci riguarda assai da vicino e di cui da sempre ci manca il libretto di istruzioni. È una Persona, è eccedenza di significato, è fonte inesauribile di valore che con la sola presenza può impreziosire il mondo, appena questi lo guardi con la lucida intelligenza dell’amore. Ogni lavoro la richiede, ma questo, il prendersi cura di coloro che vivono ai confini del vivere, la richiede, la pretende, la esige ancora di più.

Osservate per un momento, cara lettrice e caro lettore, come nei pressi della grande sofferenza mentale vadano a intrecciarsi amore, eccedenza di significato e necessità della presenza: questo intreccio ci avvicina all’esperienza della bellezza.

La bellezza: lasciamo per un istante il “malato”. Dove la troviamo, la bellezza?

Quando ne facciamo esperienza? Pensiamo alla generosità della grande arte, alla letteratura, alla musica, alla pittura ... Anche se non vi badiamo più di tanto nelle nostre giornate, essa, la grande arte, è così importante per la nostra vita che faticheremmo a pensarci senza. È entrata nel nostro linguaggio quotidiano senza che ce ne accorgessimo, l'ha costituito come il terreno che ci sostiene: non lo sappiamo, o lo dimentichiamo, ma ogni nostra esperienza passa attraverso il suo filtro. È sufficiente pensare a Dante? Per questo non ci è difficile comprenderne la necessità, della bellezza: non ci è necessaria la bellezza di quella Pietà che un Michelangelo – a ventitré anni, ven-ti-tré! – seppe pensare e scolpire?
Tante grandi opere, al pari di questa Pietà, continuano a distanza di secoli a parlarci, a significare per noi, continuano a dirci chi siamo e come siamo fatti, solo che ce ne ricordiamo. Ecco la loro eccedenza di significato.

Infine esse ci fanno stare bene, ci capiscono, ci amano. L'andante cantabile della Sinfonia k 551 non ci conferma, non ci fa sentire amati e accettati nel profondo? Non legge nella nostra profondità come solo l’amore profondo può fare? Quasi che il suo risuonare magnificasse dentro di noi ricchezze a noi stessi ignote, ci mostrasse cosa si può fare della sostanza umana, della nostra sostanza umana. Ah, ma se essere umani significa anche essere così come dice l'andante... accidenti, mica male ... ma allora ne vale la pena .. che bello ...

La bellezza: nelle nostre giornate fa capolino nel linguaggio senza che ce ne accorgiamo, quando esclamiamo “che bello!”, “che bella persona”, “che bellezza!” . Senza pensarci tanto salutiamo qualcuno e gli diciamo “ciao bella!”, “ciao bello!”. Forse questo significa: ho proprio piacere di vederti, la tua presenza tutte le volte significa qualcosa di più, è proprio importante che tu ci sia, è necessario, forse provo qualcosa di simile all’amore.
Se diciamo bella a una cara Persona, e lo diciamo a Mozart e a Michelangelo, una ragione ci sarà? Forse si tratta di esperienze per qualche verso affini?

Torniamo ai “malati”: dobbiamo imparare a vederli belli, i “malati” (e magari anche i “sani”). A immaginarne la bellezza nascosta dietro la sofferenza, quella bellezza che loro hanno dimenticato o non hanno mai visto. Dobbiamo saperli guardare con lo sguardo del mentore, o della madre amorosa, di coloro che sanno ravvisare le promesse nel seme.

Perché la loro immagine bella, quella che nascerà dalle nozze della loro realtà con la nostra anima, quella, quella essi vedranno nei nostri occhi, e sarà il loro farmaco, la loro guida al vivere.

Ma possiamo vederli belli solo se la bellezza soggiorna dentro di noi, se già il nostro sguardo ne è abituato. Noi siamo fortunati: siamo in Italia! Quell’Italia che custodisce una percentuale esorbitante delle opere d’arte di tutto il mondo! Quell’Italia che è stata nei secoli, ed è tuttora, considerata il paradiso della bellezza, dell’arte, del saper vivere e, non ultimo, del saper mangiare! L’Italia del Rinascimento fiorentino, del Poliziano, di quell'incredibile momento fra la fine del 1400 e l’inizio del 1500 che ha visto incrociarsi Leonardo e il giovane Michelangelo … l'Italia che nell'Ottocento ha regalato al mondo Giuseppe Verdi e nel Novecento Goffredo Petrassi e il Quartetto Italiano ...

La storia dell’arte è il catalogo dei fenomeni dell’anima. Proviamo a pensare che i classici al di là dello spazio e del tempo davvero parlino di noi, davvero parlino a noi, lasciamo da parte il ricordo annoiato di inutili anni di scuola. L’esperienza della bellezza sta proprio in questo, nel vedere rappresentata la nostra realtà umana illuminata dalla grazia, dalla profondità dello sguardo, dalla tenerezza. La bellezza ci capisce profondamente, ci legittima, perché è la più libera dimora dell’anima...




Giorgio Moschetti

venerdì 7 novembre 2014

SUL POTERE NEL PRENDERSI CURA (DEGLI ALTRI E DI SE')

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose



Cara lettrice, caro lettore, oggi vorrei riflettere con voi sul potere, in particolare sul potere di chi assiste, cura, si prodiga, dà, sul potere del guaritore, del terapeuta, al quale in genere si attribuisce valore simbolico di sacrificio, altruismo, sensibilità.
A ben pensare la maggior parte delle professioni è o dovrebbe essere in qualche modo al servizio della salute e del benessere dell’uomo: tuttavia le attività connesse al prendersi cura, quelle terapeutiche per intenderci, dello psicoterapeuta come del sacerdote, dell’insegnante come del medico, dell’assistente sociale, dell’educatore richiedono atteggiamenti e impegno particolari, diretti inequivocabilmente ad aiutare gli infelici, gli ammalati e tutti coloro che in qualche modo abbiano smarrito il loro cammino. In queste figure entra in gioco, in maggiore o minor misura, l’immagine del guaritore, di colui che si prende cura.
C. G. Jung chiama archetipi queste immagini interne, originali, primordiali, sorta di modelli interiori di comportamento; e chiunque abbracci nella propria vita il compito tutt’altro che leggero dell'assistere, del guarire, dovrà aver a che fare con l'archetipo del guaritore. Esso si fonda su due poli, su due possibilità intrinseche dell'essere umano, della Persona. Ogni Persona può essere malata, stressata, disorientata, incapace di far fronte alla propria vita; viceversa ogni Persona può anche lenire con la carezza, guarire.
Chi assume un ruolo terapeutico non può considerarsi veramente guaritore se non conosce la malattia, la sofferenza, se non le riconosce nel suo intimo: deve avere – chi non ce l'ha? – e soprattutto riconoscere la propria ferita dentro di sé. Il suo interesse per il prendersi cura nasce proprio dalla consapevolezza che ogni vita, umana e non, è esposta a sofferenza, a malattia, a smarrimento. Per curare e assistere l'altro il guaritore deve conoscerla, la sofferenza: come può farlo, se non conoscendo la propria? Egli al pari del malato è esposto a sofferenza, a malattia, a smarrimento. Ma sa dialogare con essi, almeno si spera, sa riconoscerne la natura di importanti occasioni perché la Persona venga alla luce nella sua pienezza, sa trovarne un senso in relazione al suo cammino di vita. Questo può offrire al sofferente, e non è poco.
Ma il potere, dov’è in tutto ciò? Certo il guaritore, proprio per quello che hai appena letto, ha molto potere nei confronti del sofferente, potere ingigantito dal bisogno e dalla sofferenza stessa dell'altro. 
E in questo grande potere si annida per il terapeuta il grande rischio di sentirsi superiore al paziente, di squalificarne ogni dubbio o parola perché parola del malato, quindi sintomo, quindi segno di malattia, o comunque parola di incompetente, di non addetto ai lavori. È questa l’ombra del terapeuta: è importante – di più, indispensabile – che il terapeuta conservi memoria della propria ferita e sappia sempre che curando gli altri sta anche curando la propria malattia, il proprio malessere personale, esistenziale. Più il terapeuta crede di essere sano, immune dalla fragilità, più vedrà il "guasto" soltanto in chi gli sta di fronte e più crescerà la distanza tra i poli dell’archetipo ferito - guaritore, distanza che invece deve attenuarsi. Il rischio per lui sarà di istallarsi sull'unico polo del guaritore, con il quale finirà per identificarsi, sbarazzandosi così della propria umana realtà, della propria debolezza, che saranno invece proiettate su chi gli sta vicino, sui pazienti, sui colleghi, sui familiari, gli amici. Sappiamo che la parte repressa dell’archetipo è sempre proiettata inconsciamente sul mondo esterno; il paziente invece tenderà a proiettare sul terapeuta il proprio guaritore interno, la sua parte non riconosciuta che lo salverebbe, la attribuirà tutta a lui anziché svilupparla riconoscendola come indispensabile aspetto salvifico di sé. Ogni terapeuta corre il rischio di identificarsi con i propri strumenti dimenticando la propria fragilità, tanto più quanto più si affanna ad accumular strumenti e tecniche trascurando il rapporto con la propria sofferenza. In realtà, identificandosi con la salute, il potere, la forza, egli corre il rischio di diventare ancora più inconscio del suo paziente. Il linguaggio del potere infatti gli insegna tutti i trucchi per difendersi, negare e rimuovere la sua ombra segreta (la sua fragilità, i suoi disturbi, le sue incertezze). E questa rimozione gli renderà impossibile avere un rapporto vero con la propria psiche profonda, nonché autentici rapporti umani.
Jung considera questa inflazione psicologica quasi un passaggio obbligato, una seduzione inevitabile con cui ogni terapeuta deve fare i conti sulla strada dell’integrazione dei contenuti dell’inconscio. Nel suo saggio intitolato "L’Io e l’inconscio" scrive: "non ho ancora assistito a uno sviluppo più o meno progredito di un processo analitico di questo genere, dove non avvenisse almeno temporaneamente un’identificazione con l’archetipo della personalità mana", in cui cioè il guaritore nella forma di eroe, mago, medico, santo o capo tribù, non perdesse almeno temporaneamente il contatto con la propria fragilità.
L’archetipo ferito-guaritore abita il mondo interno di ognuno di noi, anche di te che stai leggendo in questo momento: se presti un po’ d’attenzione a come a volte ti poni nei confronti degli altri, se con un piccolo sforzo ti dici proprio le cose come stanno, se sei sincero e onesto con te stesso, noterai che questo rischio è anche affar tuo, come lo è per chiunque debba gestire del potere. Ma è difficile da riconoscere e da ammettere. Questo rischio, al pari delle altre ombre che albergano dentro di noi, deve esserci ben presente, non deve essere occultato a noi stessi ma al contrario è nostro dovere tenerlo sempre ben presente. Quando disponiamo di un potere, a maggior ragione se di un potere grande, dobbiamo sempre sapere con chiarezza cosa vogliamo farne, di quel potere, come indirizzarlo. Il potere del guaritore è il potere del sofferente che questi non riconosce in sé e proietta sul terapeuta. È dovere del guaritore trasferirlo, restituirlo al sofferente, operare in modo che il proprio potere diminuisca e quello dell'altro aumenti. Il potere non è mai nostro, passa soltanto per le nostre mani e deve andare verso quelle di coloro che ne hanno di meno.

Andrea Montagnini

giovedì 23 ottobre 2014

IN NOME DEL PADRE

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
Qualche sera fa insieme ad un caro amico ci siamo ritrovati a fare alcune riflessioni che vorrei condividere con te, caro lettore, su ciò che oggi rappresenta la figura del padre.

Tutto nasce da un articolo di Giorgio Boatti su "La Stampa", dal titolo a mio avviso sarcastico ma neanche troppo: "Abbiamo fatto la festa al papà". Si tratta di una riflessione sui cambiamenti che hanno coinvolto la figura del padre, il suo ruolo e il tipo di autorità da lui rappresentata nei diversi periodi storici fino ad arrivare ad oggi, recensendo un libro pubblicato da Marco Cavina "Il padre spodestato. L'autorità paterna dall'antichità ad oggi".

È un'interessante carrellata che inizia dalla figura del padre nella civiltà romana, quando la patria potestà era intesa in modo totalizzante: il padre aveva il diritto di vita e di morte sui propri figli, era una grande mano in grado di decidere, anche in caso estremo, sulla stessa esistenza della prole, nonché di dirigere ed esercitare l'autorità in termini di potere assoluto.

L'articolo ricorda che solo con la rivoluzione francese venne abolita la patria potestà in termini assoluti: si trattò di un cambiamento radicale, non solo in termini giuridici, che scardinò una impostazione mentale durata secoli. Certo dovette passare ancora del tempo per arrivare agli anni sessanta del secolo scorso e ai mutamenti giunti insieme alla contestazione giovanile, che hanno sottolineato il primato del singolo, a tutt'oggi vigente come una delle caratteristiche della nostra società individuale e individualista.

La struttura della famiglia si modifica sotto i colpi del pensiero e i ruoli di autorità divengono più sfumati: non si parla più di patria potestà, ma di responsabilità genitoriale, in cui chi definisce le regole per la crescita dei minori sono sempre più spesso altre agenzie formative come la scuola, e altre figure come gli educatori, gli insegnanti, i psicologi, ecc..

Attualmente nell'odierno linguaggio comune il termine autorità credo sia inteso, anche da te lettore, soprattutto come figura giudicante, sanzionante, figura che come tale non ispira una gran simpatia. E' il modo, assai parziale ma molto comune, non di rado tinto di una certa diffidenza e distanza, con cui siamo abituati a pensare a questa parola e al suo significato. Ma forse ti sorprenderà sapere che in origine, etimologicamente, autorità, al pari di autore, derivano entrambi dal latino auctor-oris, che significa colui che promuove la crescita, che fa avanzare, che potenzia. Quanta differenza! Quanta ricchezza di implicazioni si perde in questa nozione se la si limita al solo giudice severo che sanziona!

L'autorità, certo intesa in questa accezione e non in altra, è invece figura indispensabile in qualsiasi relazione interpersonale caratterizzata da una forte disparità di potere (genitore figlio, insegnante allievo, terapeuta paziente e così via): il primo termine di ognuna di queste coppie, l'auctor, proprio in quanto promotore di crescita, proprio in quanto figura che fa avanzare, che potenzia, deve essere in primo luogo una base sicura che permette all'altro, al figlio, all'allievo, al paziente di fare esperienza in un ambiente sicuro in cui possa conoscere e agire: il bambino ha bisogno della sicurezza rappresentata dal genitore per imparare a muoversi con i suoi pochi strumenti nel mondo, per conoscerlo e per agire. Ma chi promuove, chi fa avanzare, chi potenzia, deve poi anche rendere possibile lo scambio fiduciario, sapere essere cioè oggetto di fiducia e in seguito insegnare all'altro a essere lui stesso oggetto di fiducia, perché solo in un contesto fiduciario, in cui l'altro rappresenti sicurezza e affidabilità, la Persona può articolare nel mondo la sua manifestazione.

Certo la figura di autorità, autorevole, promuove la crescita, sprona e incoraggia ma anche ferma, contiene, ricorda e definisce i limiti. Operazione non semplice ma indispensabile: che si tratti di imparare a 'saper fare' (andare in bicicletta, guidare, fare i calcoli) o a 'saper vivere' (avere rispetto degli altri, di sé, avere delle regole di vita, ecc..) la consapevolezza dei limiti, propri e del mondo, è condizione basilare per qualunque azione.

Che significato può avere tutto questo nella nostra società che considera la libertà personale un valore assoluto, che considera la nozione di limite con un certo fastidio, che valorizza l'assenza di limite, la situazione estrema?

Credo, caro amico lettore, che non ci possa essere autentica libertà personale senza etica e morale, senza un chiaro ed esplicito riconoscimento dei ruoli e delle responsabilità che i ruoli comportano: la autorità vera è quella di coloro la cui presenza accresce la sicurezza di chi è più fragile, pone le condizioni perché chi ha meno potere possa svilupparne di più progressivamente colmando il gap di partenza e acquisendo sicurezza, autonomia, affidabilità. L'autorità nel significato etimologico tende a redistribuire il suo potere, ad attenuare il dislivello iniziale, ha fatto la sua parte quando l'altro è diventato a sua volta autorevole.

E il nostro protagonista, il padre, dove si colloca in queste poche righe di riflessione?
Mi piace pensare e credere che il padre, proprio perché portatore di sicurezza e di fiducia, proprio in quanto figura di autorità amorevole debba essere oggi più che mai presente. Presente con la voglia di costruire un ambiente stabile dove poter fare esperienza anche se il mondo cambia di continuo; presente come persona di fiducia, così rara da trovare eppure così indispensabile; presente con la voglia, anche se giornalmente faticosa, di aiutare non solo ad avere tante cose e oggetti, ma ad avere il senso delle cose, il rispetto degli oggetti; presente come voce che sostiene, incoraggia, che sa spronare e sa fermare quando è il caso. Cari lettori che siete anche papà, avete un ruolo difficile ma indispensabile: non scoraggiatevi per questo, non tiratevi indietro, non abdicate, c'è bisogno di voi e del vostro aiuto per crescere e diventare adulti veraci!
  

Elena Iorio

venerdì 10 ottobre 2014

LA NOSTRA LIBERTA' TRA SCELTA E REGOLA

E poi che la sua mano a la mia puose,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose
La mia libertà ... la tua libertà ... Dove finisce la mia comincia la tua ... In quanti modi parliamo di libertà! Che parola importante è mai questa! Oggi noi vogliamo dare un piccolo contributo alla riflessione su questa nozione, senza però farne una faccenda ideologica, senza per forza simpatizzare per questa o quella parte politica: piuttosto per riscoprirla, la libertà, per vedere dove si annida, o almeno provarci, nella piccola concretezza del nostro vivere.

Cosa significa essere liberi? Proviamo a dare diverse risposte. Una potrebbe essere: siamo liberi quando sappiamo cosa fare e quando farlo. Mica male: ma più facile a dirsi che a farsi! D'altronde la libertà ci sembra condizione fondamentale e specifica della Persona: non riusciamo a pensare a una Persona nella pienezza della sua manifestazione e creatività se non come libera, e una Persona non libera ci sembra che fatichi di più a essere pienamente Persona.

Cosa significa essere liberi? Siamo liberi, questa è un'altra risposta, quando sentiamo di avere la capacità, dentro di noi, e la possibilità, fuori di noi, di decidere tra le diverse opzioni che ci si presentano nel quotidiano. Il mondo certamente influenza le nostre decisioni, a volte ostacola la realizzazione dei nostri desideri, ma in quasi tutte le circostanze, se non in tutte, ci rimane sempre comunque un qualche spazio di effettiva libertà entro il quale compiere delle scelte. Forse non sempre possiamo fare, ma sempre possiamo pensare. L'azione ci può venire proibita, ma il dare significato alle cose, no, è ben difficile che ci venga impedito ... almeno finché siamo vivi. Sul dopo, non sappiamo un granché. L'importante è riuscire a riconoscerlo, questo piccolo spazio di libertà che da qualche parte sempre conserviamo.

Talvolta non è facile riconoscerlo, questo spazio di libertà. Altre volte invece le troppe possibilità ci disorientano e ci paralizzano. Una banale influenza limita la nostra libertà, ci costringe a letto, non possiamo uscire di casa, dobbiamo rinunciare ai nostri importanti impegni, ma pensa invece all'improvvisa vincita di una grande somma di denaro, che ci spalanca quasi illimitate possibilità ancora più pericolose della privazione della libertà. Che fine hanno fatto molte delle Persone che hanno vinto somme strabilianti nelle lotterie?

Anche il nostro stato emotivo, il nostro modo di sentirci può limitare la nostra libertà. Quando siamo più incerti, insicuri, fragili, quando abbiamo paura è assai difficile operare delle scelte. In questi momenti siamo assai poco liberi… Scegliere, si sa, implica anche la possibilità di sbagliare, ma proprio poter scegliere ci fa sentire unici e autonomi, ci dà sicurezza. Viceversa dobbiamo essere sufficientemente sicuri e autonomi per permetterci di correre il rischio di sbagliare, e anche davvero magari sbagliare, senza che questo diventi il fallimento della nostra vita!
Nel percorso scolastico, in quello lavorativo e in generale nel percorso di vita nei primi tempi ci troviamo a compiere scelte di minore portata – pensa alle scelte dell'infanzia – e solo in seguito riusciamo ad esercitare la nostra libertà su scelte di portata sempre più ampia, che riguardano noi stessi e gli altri. I genitori nel prendersi cura dei figli devono fare attenzione a rispettare lo spazio di libertà all’interno del quale i figli sono in grado di scegliere e non caricarli di libertà (e responsabilità) che non competono loro e che non sarebbero in grado di reggere. Se i primi assumeranno sulle loro spalle la responsabilità delle proprie decisioni, se decideranno quando è compito loro decidere, i secondi progressivamente impareranno a farlo e a crescere liberi.

Poi c'è il complesso rapporto fra la libertà il suo opposto, fra libertà e regola, vincolo.
Non ha senso parlare di luce se non in relazione a oscurità, e viceversa. Così non ha senso parlare di libertà prescindendo da vincolo, da regola. La parte naturale di ciascuno di noi, il corpo, è caratterizzata dalla regola, come la natura che ci dà origine: l’alternarsi del giorno e della notte, l’inspirazione e l’espirazione, il battito cardiaco. Cosa succede quando queste regolarità si alterano? Non è, proprio oggi, una preoccupazione planetaria tentare di interferire il meno possibile con le regolarità naturali (oggi si dice ambientali) per garantire un mondo vivibile ai nostri figli? È proprio il senso di responsabilità, verso noi stessi e verso gli altri, a ricordarci l’importanza della regola nei rapporti fra noi. Non essere i soli al mondo ci ricorda che libertà non può significare capriccio, il capriccio infantile di chi ignora che il resto del mondo è la base del suo stesso esistere: la vita in comunità implica il rispetto delle regole… Ma attenzione: questo proliferare di regole non ci rende meno liberi, al contrario delimita con precisione l'ambito delle scelte e per questo le rende possibili. Perché le regole sono vincoli e insieme mattoni per ogni costruzione.
Non posso fare nulla escludendo qualsiasi regolarità. Libertà avulsa da regola, contrapposta a regola diventa capriccio distruttivo.

Cosa significa essere liberi? Significa anche esprimere la propria creatività: l’artista, il progettista, il politico apportano delle innovazioni e dei cambiamenti nel mondo, ma non dimentichiamo che anche ciascuno di noi lo fa, creando la propria vita secondo le proprie inclinazioni, secondo la propria virtute, la propria norma. L’originalità tipica di ogni atto creativo è sempre collegata a una qualche regola che rappresenta il mattone della costruzione creativa. Se la creatività perde la regola diventa arbitrio, e non libero (arbitrio). Creare il nuovo impone la conoscenza della regola: comunque, per essere infranta o superata dovrà pur essere conosciuta! Qualsiasi invenzione o innovazione è preceduta sempre da una profonda conoscenza della materia e delle regole che sono alla base per la costruzione creativa.


Claudia Fè ed Elisa Vigna